Come sempre avviene nelle creazioni di Christoph Marthaler, anche in Glaube Liebe Hoffnung l’inizio è lento, immobile. Sembra non succedere nulla. Un uomo entra in scena con una lunga scala, mentre nella buca dell’orchestra invisibili musicisti provano qualche accordo altrettanto rarefatto. Indossa una tuta blu, da operaio. Appoggia la scala alla facciata dell’edificio che occupa tutto il fondo della scena. Vi sale per montare delle grandi lettere sul cornicione che sovrasta una parete vetrata. Si guarda intorno. Esce e rientra. Sposta la scala e risale. Mentre ridiscende i pioli cedono e lui scivola giù, con una piccola gag che dà subito un tono leggero al lavoro. È già trascorsa una decina di minuti, ora la scena è vuota ed ecco irrompere in mezzo all’orchestra uno che prende a far gesti nell’aria che acquistano senso soltanto quando irrompono anche tutti gli altri. Schierati fianco a fianco attaccano un corale vocalizzo.
Li riconosciamo subito quei suoi personaggi. Sono gli stessi che ci accompagnano fin dai tempi di Stunde Null. Anonimi, qualunque sia il loro ruolo sociale o il campione sociologico che rappresentano. Vestiti sempre in maniera impersonale, senza desiderio di eleganza, fuori da un tempo storico riconoscibile. Il tempo che conta è quello che scorre sulla scena, un tempo da condividere, da riempire con azioni e parole e con quel sommesso canto corale e quell’irresistibile vento di follia che rappresentano l’elemento più riconoscibile del «Marthaler touch»; la sua capacità di cambiare il nostro sguardo sulle cose per profondità e leggerezza, intrecciando costruzione testuale e drammaturgia musicale in un gioco continuo di cortocircuiti mentali. E allora, lo notavamo altre volte, quell’attesa iniziale sembra fatta per darci il modo di posizionare lo sguardo, di trovare il nostro posto in un mondo che tuttavia vive anche senza di noi, di abituarci alla sua luce e alle facce dei suoi più abituali frequentatori. Ma qui, in Glaube Liebe Hoffnung, il tempo dell’attesa si dilata fino a invadere tutta l’azione. Diventa la chiave di quello che è forse lo spettacolo più enigmatico del geniale regista svizzero (presentato un paio di anni fa al festival di Avignone, è ancora per questa sera allo Strehler di Milano).
Alla base c’è la «piccola danza macabra in cinque quadri» scritta da Ödön von Horvath all’inizio degli anni trenta, Fede amore speranza (era Fede speranza carità nella traduzione pubblicata parecchi anni fa da Adelphi, con un’evidente adesione alla più comune dizione delle virtù teologali). Titolo di per sé disperante giacché di quelle virtù niente è rimasto nel mondo evocato da Horvath, vi è anzi una disperazione tanto più straziante quanto più leggera appare la vicenda della protagonista, una mancanza di amore tanto più atroce quanto più appare essere questa l’unico sentimento convintamente praticato, lungo una scala sociale rappresentativa di vari strati. La giovane Elisabeth vorrebbe comprare una licenza di commercio e per questo sarebbe anche pronta a vendere il proprio corpo all’Istituto di anatomia e sbatte invece contro ogni sorta di ostacolo legale e umano, tutti pronti a voltarle le spalle pur di non turbare i propri interessi, che sia una prospettiva di guadagno o la carriera. La crisi mondiale del ’29 ancora si fa sentire e il nazismo è alle porte, la commedia non andrà più in scena a Berlino.
Il lavoro di Marthaler nel teatro non è però mai quello di mettere in scena un testo, se con ciò si intende la sua rappresentazione. Siamo nel campo della creazione, e non fa differenza se dietro ci stanno Shakespeare o Georg Büchner, se si parte da un delirante collage di discorsi politici o da un musical di Broadway come nell’ancora recente Meine faire Dame che fa a pezzi il più celebre My fair lady. Non è solo il fatto che qui di Elisabeth ce ne sono due, quasi sempre presenti insieme, con lo stesso vestitino corto ma di un colore diverso (sono Olivia Grigolli e Sasha Rau). E spesso la stessa scena viene replicata più volte, con qualche variazione. Non è solo che la mano drammaturgica della fidata Stefanie Carp si fa sentire e la base testuale si allarga in direzioni imprevedibili, come si comprende fin dalle prime battute, un ingarbugliato discorso di ringraziamento alle commissioni impegnate nella lotta alla tratta internazionale delle ragazze difficilmente attribuibile al testo di Horvath. Che naturalmente c’è, con tutta l’indignazione ma anche la lucidità d’analisi che il giovane scrittore sa produrre in quegli anni. Ma è come se Marthaler l’usasse per raccontarci qualcos’altro, che ciascuno deve scoprire da sé. Così la facciata vetrata dell’Istituto di anatomia davanti a cui si svolge la prima scena – non per caso, ci rendiamo conto, ancora in fase di completamento – diventa a sua volta la base di un processo metamorfico che sovverte l’abituale fissità delle scenografie di Anna Viebrock, quei grandi spazi reclusori da cui sembra impossibile uscire, anonimi non luoghi in odore di passato prossimo, dal bunker di Stunde Null alla nave degli Spezialisten o la sala di attesa di Groundings. Ecco invece che da un lato si accende un cartello luminoso con la scritta «Umbau», cambio di scena, lavori in corso. E gli attori si danno a spostare pareti, tirar fuori letti e scrivanie che vi si nascondono, montare e rimuovere ringhiere… E tutto quel lavorio non solo è parte integrante dello spettacolo, ma in qualche modo ne determina il senso (di marcia) al pari di quelle continue ripetizioni o delle didascalie enunciate dal più compassato degli attori, con tono quasi brechtiano.

Recitano, è chiaro. La loro commedia, una sorta di commedia con musiche che si sovrappone a quella di Ödön von Horvath, e lentamente l’assorbe. Marthaler è musicista di formazione, si sa quale ruolo occupi la drammaturgia musicale nel suo lavoro, quanto interagisca con i corpi degli attori (e sono attori straordinari, dal grosso Josef Ostendorf alla straripante Bettina Stucky), anche da questo dipende la sua capacità di divertire, di non annoiare mai. Qui parte dalla «ben nota Marcia funebre di Chopin» imposta dalla prima didascalia del testo, per farne un tormentoso Leitmotif che si insinua in un tessuto musicale privo di confini di tempo o di genere, da una Marcia di Radetzky distorta fino alla cacofonia a canzoni che ci ricordano Elton John e Brigitte Bardot. Sovente gli interpreti si immobilizzano e attaccano un canto corale, sotto la guida di quel maestro concertatore che se ne sta da solo in quella buca dell’orchestra popolata solo dai fantasmi dei musicisti, cioè dai loro leggii. Lamentazioni militaresche come Der gute Kamerad, che qui non riescono ad apparire luttuose. Vecchie canzoni tedesche che parlano di una «felicità ridente che sta passando lieve». Per finire con Les temps des cerises, che ricorda di un’altra rivoluzione di maggio.
Perché c’è stato il tempo del disordine, dice alla fine l’uomo che ha condotto la prova d’orchestra. In un lontanissimo passato. Lo stato è crollato, ci si è rifugiati in piccoli gruppi. Il loro è una corale, e ci ha raccontato una vecchia storia. Ora viviamo nell’Arcadia. Uscendo però non ne siamo così sicuri, noi che siamo rimasti in quel passato.