Nel maggio scorso Franco Cassano, ordinario di sociologia a Bari, teorico del ‘pensiero meridiano’ e protagonista della ‘primavera pugliese’ – che portò all’elezione del sindaco Emiliano e del presidente Vendola – , ha pubblicato sull’Unità un’analisi del voto di febbraio poi molto circolata a sinistra.

Alcuni passi: «Da tempo il centrosinistra possiede un bacino elettorale ristretto e non espansivo», scriveva il professore, oggi deputato, «anche se sistematicamente ignorato, questo convitato di pietra esiste da molti anni, e tutte le ricerche sul comportamento elettorale degli italiani hanno segnalato che la base sociale della coalizione di centrosinistra è caratterizzata dalla sovra-rappresentazione di tre aree sociali: quella del lavoro dipendente prevalentemente pubblico, e sempre più quella dei pensionati (ben il 37% il 25 febbraio!) e quella delle figure dotate di un alto livello di istruzione. Si tratta di una base sociale fortemente legata al sistema del welfare, la cui composizione è in buona misura il riflesso dell’espansione della sfera dei diritti che si produsse negli anni 70».

In altre parole «il centrosinistra rappresenta oggi quella vasta area sociale del lavoro dipendente, che riuscì in quegli anni a costruire un complesso di garanzie capace di sottrarla all’incertezza e alle intemperie del mercato». Di conseguenza «la linea di demarcazione tra lavoro dipendente e autonomo lascia fuori del centrosinistra la grande maggioranza di questo popolo, che in Italia è particolarmente esteso».

Ripartiamo da qui. Alle primarie Renzi raccoglie un plebiscito puntando sull’elettorato che sta oltre quella «linea di demarcazione». Apre una polemica con la Cgil dei pensionati e dei dipendente, e punta sui giovani precari e sugli autonomi. Com’è andata a finire?

Quando a maggio sottolineavo la stretta correlazione tra la mancata espansione elettorale del centrosinistra e l’angustia crescente della sua base sociale, non pensavo solo alla quota irrisoria del voto giovanile andata all’alleanza Pd-Sel, ma anche al disastroso esito della lista Ingroia. Il dato nuovo e preoccupante stava nel fatto che una parte cospicua di quel voto era uscita dall’orbita della sinistra approdando nell’area di Grillo, incontrando il voto proveniente da destra e dalla piccola e piccolissima impresa sommersa dalla crisi. Un inedito incontro tra figure sociali escluse dall’accesso a forme di protezione sociale e unificate dal nucleo ideologico del grillismo: l’attacco frontale alla “casta” della politica e a tutte le figure garantite, o percepite come tali. Oggi il dato più rilevante delle primarie sta nel fatto che Renzi è apparso, al popolo di centrosinistra, come il più capace di conquistare consensi al di là dei suoi confini, e di sottrarlo ad un destino di accerchiamento e di sconfitta.

Grazie alla capacità comunicativa?

No, va ben aldilà di questo. Renzi ha saputo trasformare l’enfasi sulla discontinuità generazionale, la rottamazione, in impazienza verso il governo, contrapponendo alla retorica della responsabilità quella del cambiamento. Quest’impertinenza gli ha permesso di andare aldilà dei confini tradizionali della sinistra. Del resto i temi della discontinuità generazionale e della meritocrazia sono stati cari anche alla Terza via del Blair degli anni 90. Ma il discorso “meritocratico” di Renzi, come già quello di Blair, si rivolge a una fascia di quell’area generazionale, quella più forte e fiduciosa di farcela. Parte importante, ma solo una parte.

È una suggestione oggi riproponibile, quella blairiana?

Difficile. In primo luogo oggi il ciclo economico è molto diverso da quello espansivo degli anni ’90 e l’Italia di oggi è nell’occhio del ciclone. L’Inghilterra di Blair è anche quella dei film di Ken Loach, quella del dopo-Tathcher, nella quale l’offensiva anti-operaia e la deindustrializzazione sono pur sempre quelle di un ex impero che, nell’era dell’egemonia del capitale finanziario, può compensarle con l’ascesa della City e l’avvento di nuove professioni legate a quell’ascesa. La riforma del welfare e la ristrutturazione dei rapporti di classe avvenivano nel quadro di un dinamismo sociale che dischiudeva possibilità ad una parte delle nuove generazioni. Vent’anni dopo, nell’Italia in crisi e in declino, questa riproposizione è difficile. Non solo per Renzi, per chiunque. Ma la mancanza di alternative è un suo elemento di forza.

L’area sociale senza speranza e senza tutele è sommabile, nella rappresentanza politica, a quella della speranza e delle tutele, ormai lontana e percepita come contrapposta?

Su questo fronte si apre uno spazio per la sinistra del Pd. Piuttosto che contrastare questa fuoriuscita dall’insediamento tradizionale, essa deve provare a bilanciarla sull’altro versante, le figure sociali più marginali, quelle che hanno votato per Grillo. Come può la sinistra dimenticare che il 37% del voto studentesco è andato ai 5 Stelle? Deve pensare l’uguaglianza in modo nuovo, come strumento per superare la divisione/contrapposizione tra inclusi ed esclusi dal sistema delle garanzie, redistribuire l’incertezza e provare a ricostruire un suo popolo. In altre parole deve fuoriuscire dalla difesa delle tutele del passato e pensare una cornice nuova e più larga. Troppe volte la parola d’ordine dell’uguaglianza è apparsa voler difendere le conquiste passate anziché indicare quelle del futuro. La sinistra deve schiodarsi da una duplice riduzione: da un lato rappresentare le ragioni dei chierici contro i laici, e degli iscritti contro gli elettori dall’altro, che fa scomparire l’idea di cambiamento all’ombra della responsabilità. In una situazione attraversata da segni di scollamento tra società e istituzioni giocare in difesa è una strategia perdente.

Lo ‘scollamento’ fra militanti ed elettori del Pd è appunto un fenomeno di queste primarie, come ha notato l’Istituto Cattaneo. Questo voto, e le trasformazioni che Renzi prefigura, impatteranno con la forma-partito del Pd?

Va superata la contrapposizione tra il partito liquido dominato dal leader e il partito solido costruito sul modello socialdemocratico. Il mondo è cambiato e devono cambiare le forme dell’organizzazione politica. Ma non siamo di fronte, come sostiene Marco Revelli, ad un ’finale di partito’. Faccio un esempio. La primavera pugliese è nata da una mobilitazione dei movimenti e della società civile che sottrassero ai partiti il monopolio dei candidati, prima con una convenzione e poi con le primarie che portarono alla designazione-vittoria di Emiliano prima e di Vendola poi. Questa miscela portò ad un risultato che nell’era del monopolio dei partiti non si era mai dato: l’affermazione del centrosinistra a Bari e in Puglia. L’affermazione di due leader ha però condotto anche verso un esito squilibrato, fondato sullo scavalcamento di ogni luogo di elaborazione collettiva e sul primato del rapporto diretto e personale con gli elettori. La stessa società civile che aveva innescato il rinnovamento si è poi dissolta, risucchiata da funzioni di governo o tornando ad essere passiva consumatrice del prodotto politico del leader. Il momento più creativo è stato invece quello in cui movimenti e partiti si sono incontrati. E perché questo accada occorre superare le due opposte demonizzazioni: quella che vede i partiti solo come un apparato oligarchico e autoreferenziale; e quella che vede nella società civile l’origine di tutti i particolarismi. Entrambi i rischi esistono. Proprio per questo occorre costruire aree di incontro e di collaborazione.

Vuol dire che le primarie, innovazione delle primavere della società civile, hanno prodotto il primato del rapporto diretto con gli elettori, ovvero leader di tipo populista?

Non si deve andare avanti a botte di demonizzazioni, dicevo. La società civile non è solo Berlusconi, è stata anche parte importante dell’esperienza dell’Ulivo o di altri fenomeni di rinnovamento. Per chi fa politica le dinamiche della società civile sono una costante fonte di riflessioni, un indicatore dei problemi che si annunciano. Piuttosto che contrapporre primarie e partito proverei ad organizzare in modo diverso lo spazio del partito, a edificare luoghi intermedi tra esso e l’elettore, cercando di trasformare almeno una parte dei consumatori del prodotto politico in produttori di esso. Chi come me si è battuto per Cuperlo, si augura che Renzi riesca a dare spinta al governo, premessa necessaria per andare a votare con qualche probabilità di successo. Quindi si tratta non di ostacolare Renzi, ma di incalzarlo su questo terreno.

Renzi ha offerto la presidenza dell’assemblea a Cuperlo, ma annunciato che non candiderà D’Alema alle europee. Le sembra un buon inizio?

L’uscita su D’Alema no, penso che D’Alema non lo si batte diminuendone la statura ma dimostrando di saper vincere dove lui non c’è riuscito. Sulla presidenza, i riconoscimenti di tutti a Cuperlo non erano formali. Rappresenta molto di più della percentuale che l’ha votato. Certo, la presidenza comporta il rischio di essere imbalsamati, ma è anche l’occasione, per una persona del suo spessore, per spingere il Pd e tutta la sinistra a misurarsi con le sfide di questi anni: l’ Europa, l’immigrazione, il sistema di protezione sociale. Contrastare, nell’era della rottamazione, il processo che risucchia la politica nella chiacchiera dei media è un compito di prima linea, non una carica onorifica. Oggi il Pd viene vissuto come l’epicentro di tutte le responsabilità. Rovesciare l’abbrutimento del paese che è alla base di questo cinico rito espiatorio, costringere tutti ad alzare lo sguardo non sarebbe roba da poco.