Verdini e Berlusconi li ha ascoltati volentieri, ma le osservazioni critiche dei maggiori costituzionalisti italiani no: quelle lo hanno fatto innervosire. Matteo Renzi ha preso male l’appello dei giuristi contro il suo progetto di riforma elettorale; lo hanno firmato da Azzariti a Carlassare, da Ferrajoli a Ferrara, da Rodotà a Villone e il manifesto lo ha pubblicato domenica. «Un manipolo di scienziati del diritto», li ha definiti sprezzante il segretario del Pd, usando il linguaggio che gli serve a intendersi con il Cavaliere.
Cavaliere che per le sue «porcate» elettorali o ad personam del resto faceva lo stesso. Tirava avanti comunque, per poi sbattere regolarmente contro la Corte Costituzionale. A quel punto, però, quelle leggi avevano già fatto danni. Per l’Italicum si intravede un destino simile. In effetti è ancora una legge firmata Berlusconi.

Chi avesse preso sul serio gli infiniti discorsi di Renzi sull’importanza del «merito», contrapposto al parlar vano della politica, avrebbe di che sorprendersi ascoltandolo adesso insolentirsi per le critiche nel merito dei giuristi. «Se non si fa questa legge elettorale ci tocca il governo con Berlusconi», spiega spiccio il segretario. A guardare sotto la spocchia lessicale questo è il suo unico argomento. Cioè, una riforma che amplifica i disastri della legge Calderoli, ignora le osservazioni della Consulta e regala a una minoranza un premio spropositato è una necessità politica? Taccia allora chi si preoccupa dei principi costituzionali. Ma se al sindaco di Firenze interessa questo e basta, vincere il famoso giorno dopo le elezioni, o meglio ancora quello prima, se il rispetto della volontà popolare è solo una fisima degli «scienziati del diritto», allora ha possibilità infinitamente maggiori. Verdini è un buon giocatore ma Berlusconi è un po’ appannato, perché Renzi non se la gioca a poker?

La Corte Costituzionale ha appena scritto che «le assemblee parlamentari si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare». Renzi risponde proponendo un senato di amministratori locali non eletti ma cooptati e una camera dove applicando l’Italicum all’ultimo sondaggio viene fuori che con il 22% dei voti al primo turno, e tutti i suoi alleati sotto la soglia, Forza Italia può prendere il 52% dei seggi.

Un premio del 30% che trasforma in cigno anche il Porcellum, che in fondo non è andato oltre un più 25% (comunque troppo per la Consulta). Così almeno era la legge che il segretario del Pd ha presentato al suo partito, accompagnandola con un perentorio «prendere o lasciare». Un ultimatum che ha già dovuto ritirare. Le soglie assurde che possono lasciar fuori partiti con due milioni e mezzo di voti si vanno abbassando. L’editto che riscrive l’aritmetica trasformando per legge il 35% in maggioranza si può correggere. Anche quel Ghino di Tacco trovava i suoi ostacoli e Renzi, bullismi a parte, deve rassegnarsi a ridurre almeno un po’ il suo danno.

Ma il danno resta. Soprattutto perché alla crisi della rappresentanza, al montare dei populismi e all’esplosione dell’astensionismo, Renzi continua a rispondere con la droga tutta italiana del maggioritario spinto. Non cambia verso, torna indietro. Ci riporta all’inizio del tunnel berlusconiano. Disprezza le ragioni del diritto e della Costituzione, questo è chiaro. Ma con la politica non va meglio.