Tutto ha inizio quando il clima un plumbeo seguito al crollo del Nasdaq del 2001 comincia a diradarsi. In Rete c’è una società, Google, che fa parlare molto di sé. Fornisce un motore di ricerca che aiuta navigare in Internet. Fa molti profitti, vendendo a milioni di piccoli inserzionisti spazi pubblicitari a pochi centesimi di dollaro. I suoi fondatori, Larry Page e Sergeij Brin, sostengono che mai e poi mai faranno come la Microsoft, ormai sorvegliata speciale da giudici e dal dipartimento della giustizia statunitense che l’accusano di pratiche monopoliste. Google fornisce i suoi servizi gratuitamente, usa programmi informatici open source e i suoi fondatori criticano apertamente le leggi sulla proprietà intellettuale, omettendo però il fatto che l’algoritmo alla base del suo motore di ricerca è coperto da un brevetto e che è stato sviluppato all’interno di un progetto di ricerca finanziato anche da soldi soldi pubblici. Nel frattempo, un giovane di nome Mark Zuckeberg ha lanciato un servizio per condividere con amici e conoscenti impressioni, pensieri, immagini. Si chiama Facebook, ed è indicato come il secondo, rilevante segnale che il web è arrivato alla fase del 2.0, caratterizzata dalla condivisione dei contenuti prodotti collettivamente o da singoli. A San Francisco, ha preso vita invece una società chiamata Blogger, che ha assemblato un software che consente di scrivere, diffondere immagini e suoni e, al tempo stesso, di poter interagire in tempo reale con chi accede ai quei contenuti e li commenta.

Arrivano i bohémien digitali

Blogger ha conosciuto un momento di notorietà e ha portato nelle tasche del suo fondatore, Evan Williams, qualche decina di milioni di dollari ed è indicata come un altro segno che la crisi del 2001 può essere archiviata come un incidente di percorso e che le cose hanno cominciato di nuovo a girare nel verso giusto, visto che i venture capitalist sono disposti nuovamente a investire centinaia di milioni di dollari in progetti avveniristici, anche se non hanno un business model, condizione necessaria, anche se insufficiente per rendere redditizie le società che li sviluppano. Evan Williams potrebbe ormai tranquillamente vivere di rendita, ma non vuole proprio ritirarsi a vita privata. È alla ricerca di una nuova idea «rivoluzionaria» che può cambiare il mondo della Rete. Ma annaspa, gira a vuoto. L’unica cosa chiara che ha in testa è che la condivisione dei contenuti è il nuovo Eldorado del cyberspazio. Pensa allora di sviluppare un programma informatico per un podcast collettivo, perché le persone oltre che scrivere o fotografare o filmare vogliono anche condividere, scambiarsi musica. L’idea di poter fornire un servizio di questo tipo sembra una semplicità difficile a farsi, ma è alla sua portata.

Affitta una sede scalcagnata in un quartiere degradato, popolato da homeless, disoccupati, prostitute e tossici. Il quartiere scelto è però abitato anche da bohémien digitali bravi però a scrivere codice informatico. Imbarca nella sua avventura sei ragazzi alla deriva, dall’infanzia non senza problemi, ovviamente squattrinati. Tutti vogliono, in una maniera o nell’altra, lasciare un segno nella storia dell’high-tech; inoltre sono convinti che la Rete è la concreta dimostrazione che il potere del «sistema» può essere combattuto fornendo ai singoli la possibilità tecnologica di far sentire la propria voce e di diffondere il loro punto di vista. Due di loro hanno anche partecipato ai movimenti no-global e della pace con posizioni radicali. In Italia sarebbero liquidati come black bloc. A San Francisco sono invece considerati virtuosi della tastiera.

Per imbarcarsi in una avventura dagli esiti incerti, il gruppo deve comunque garantire ai suoi componenti quel tanto che serve per mettere insieme il pranzo con la cena e avere un letto dove dormire. Evans, Ev per gli amici, è colui che mantiene il rapporto con venture capitalist disponibili a investire 200-300 mila dollari. In fondo, con Blogger, ha dimostrato che è uno che ci sa fare.

Antisistema a sette zeri

Inizia così la narrazione su Twitter che il giornalista e blogger Nick Bilton ha condensato nel libro Inventare Twitter (Mondadori, pp. 324, euro 18). Costruito come un thriller, ricostruisce lo scontro di personalità e di potere dentro la società che ha come logo un fringuello. Non può però occultare l’habitat sociale e culturale dove nasce Twitter. I rapporti con il mediattivismo è, occorre ripeterlo, una delle componenti costanti nelle vicende dell’impresa, anche quando viene quotata decine di miliardi di dollari. Altrettanto evidente è l’insofferenza verso «il sistema», che non viene meno neppure quando i conti in banca dei fondatori passano dal rosso fisso a cifre di cinque, sei, sette zeri: Twitter ha infatti sempre rifiutato ogni forma di collaborazione con i servizi di intelligence e della Fbi, a differenza di Google, Apple e Facebook, che invece hanno, chi più, chi meno, lavorato con la Nsa, la Fbi e il governo di Pechino nel reprimere il dissenso in Cina o nella attività di spionaggio condotti dai servizi di intelligence statunitense. Noto è pure il suo rifiuto di fornire alla Fbi i tweet scambiati dai militanti di Occupy Wall Street. È cioè un classico esempio dello «spirito hacker del nuovo capitalismo» descritto da Pekka Himanem e Manuel Castells nell’omonimo e noto saggio pubblicato in Italia da Feltrinelli.

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Le gerarchie aziendali dentro Twitter sono ridotte al minimo: ogni dipendente scrive il suo codice, definendo tempi e modalità del proprio lavoro. Ciò che conta è che sia un buon codice, facendo così emergere uno dei tratti distintivi dell’etica hacker: la meritocrazia, perché la reputazione si acquisisce dimostrando di essere bravo. Inoltre, lo stile di vita è alternativo. Molti sono vegani, frequentano abitualmente i rave e i meeting, come il «Burning Man», considerati, più a torto che a ragione, appuntamenti di artisti antisistema e anticapitalisti in erba. Ma alternativo non sempre fa rima con anticapitalista. Semmai emerge il fatto che la differenziazione imposta dalla logica economica capitalista segue altre derive. Ad esempio, l’uso intensivo di knowledge workers a tempo determinato; oppure la differenziazione tra chi ha diritto di accesso alle stock option e chi invece viene tagliato fuori.

È nello sviluppo delle applicazioni che le due vision dell’impresa presenti dentro Twitter sono entrate in rotta di collisione. Da una parte, Evan Williams ha sempre proposto che Twitter servisse per comunicare «cosa sta accadendo». Uno degli altri fondatori, Jack Dorsey, riteneva invece che il servizio di messaggistica e di microblogging potesse, anzi dovesse essere usato per comunicare il proprio «status» (come mi sento, cosa sto facendo). Da una parte, un servizio per informare; dall’altro uno strumento per chiacchiere frivole e rivolte prevalentemente a dare libero sfogo al proprio ego. Il mediatore tra le due concezioni è stato Noah Glass, altro fondatore di Twitter estromesso nel 2006 e cancellato nel tempo dalla storia ufficiale dell’impresa. Poco spazio è dedicato nel libro alla scelta di anteporre il cancelletto all’hastag e il simbolo @ (la chiocciola) all’utente, una consuetudine già abbastanza diffusa in Rete nelle comunicazioni tra la caotica comunità professionale dei programmatori e degli «smanettoni».

Nel libro di Bilton ampio spazio è invece dedicato all’uso di Twitter da parte dello star system e della politica istituzionale. Attori, musicisti, scrittori lo hanno usato per stabilire un canale privilegiato con i propri fan (nel linguaggio di Twitter, i followers), per renderli ancora più fedeli, visto che sono loro lo strumento di marketing virale per vendere dischi (meglio scaricare i brani musicali dalla Rete), per far accorrere il pubblico ai concerti; per promuovere libri. Per la politica istituzionale, Twitter dal 2006 in poi è stato lo strumento comunicativo di iniziali outsider del sistema politico americano. Il caso più eclatante è l’uso che ne ha fatto Barack Obama nella prima vittoria presidenziale. Tutto cambia quando Twitter comincia invece ad essere usata da attivisti in giro per il mondo. Le mobilitazioni antifondamentaliste in Iran nel 2009, l’uso intensivo da parte dei movimenti sociali o le rivolte delle cosiddette primavere arabe sono considerate segnali di un mondo in fibrillazione. Che i sismografi del conflitto sociale e di classe registrino anche l’impennata di traffico su Twitter non sorprende ma neppure inorgoglisce i suoi fondatori. Per loro, Twitter è un servizio «indifferente» ai contenuti che veicola. Non preoccupa neppure la scelta di Wikileaks di usare il servizio di microblogging dopo che altre imprese hanno accettato la censura imposta dal Pentagono e dal dipartimento di Stato in seguito alla rivelazioni veicolato dal sito fondato da Julian Assange. Twitter ha infatti sempre sostenuto la neutralità della Rete, cioè che i contenuti veicolati, qualunque essi siano, sono di responsabilità di chi li mette su Internet e che nessuno deve ostacolarli e selezionarli. Per questo ha sempre rifiutato i diktat della Fbi, del Pentagono e del Dipartimento di Stato di fornire informazioni su chi metteva on line contenuti sgraditi.

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La maschera di Guy Fawkes

In ogni caso, siamo arrivati ai giorni nostri, Twitter ha ormai più di 500 milioni di utenti ed è quotata a Wall Street, con alti e bassi. Ha resistito alle offerte di acquisizione di Facebook e Microsoft; ha ormai lucrosi rapporti commerciali con Google e ha trovato il suo modello di business (vende spazi pubblicitari più o meno come Google, nonché fa profitto attraverso le percentuali che ha sull’aumento di traffico attraverso Twitter). I suoi fondatori sono ormai diventati miliardari eccetto Noah Glass, estromesso dall’impresa senza neppure un benservito. È diventata cioè un’impresa leader della Rete. Ha poco più di 450 dipendenti, mentre la costellazione di imprese che sviluppano applicazioni è in costante crescita. Per molti, è destinata a prendere il posto di Facebook nelle preferenze dei teen agers, che sembrano però preferire sempre più servizi come WhatsApp, WeChat e altri imprese simili.

I padroni della Rete sono certo potenti. Espropriano la cooperazione sociale dei contenuti che produce. Ignorano la privacy individuale. Stringono patti luciferini con le agenzie di intelligence per poter meglio esercitare il controllo sulla Rete, ma sanno – e la storia di Twitter lo dimostra in maniera più che esauriente – che la sottrazione al controllo da parte di chi vive in Rete è altrettanto efficace. Nel racconto di Bilton, i mediattivisti anarchici scompaiono dalle pagine quando i venture capitalist e il management di Twitter si pongono l’obiettivo di far crescere i ricavi. Se ne vanno. Perché l’etica hacker può essere compatibile con il capitalismo, ma non è detto che la sua declinazione ribelle non segua altre vie. Come quella di mettere in relazione ciò che avviene nelle strade e nelle piazza e quello che accade dentro lo schermo. E quando questi due momenti della vita in società entrano in relazione, le nuvole dei dati si ingrossano, ma viene ridotto il potere di controllo su di esse. Oppure preannunciano solo una tempesta che colpisce proprio quei padroni della Rete che ne vogliono fare solo un modello di business. In fondo, nelle strade e nelle piazza di un mondo sempre più interconnesso si vedono uomini e donne che indossano la maschera di Guy Fawkes, il protagonista di un film assunto da attivisti e mediattivisti come simbolo del conflitto verso la società del capitale.