Politologo, docente alla facoltà di Scienze sociali e politiche dell’Università di Losanna, Oscar Mazzoleni studia da anni la nuova destra dell’Unione di centro – Schweizerische Volkspartei, nei cantoni di lingua tedesca -, il partito che ha promosso il referendum anti-immigrati di domenica. Tra le sue opere, Nationalisme et populisme en Suisse (Presses Polytechniques Romandes, 2008) e Voisinages et conflits: les partis politiques suisses en mouvement (Slatkine, 2013).

Professor Mazzoleni, sotto la guida di un miliardario della chimica, Christoph Blocher, autodefinitosi come “nazional-conservatore”, l’Udc è diventata negli ultimi vent’anni la maggiore forza politica svizzera agitando il fantasma degli immigrati. Non un partito anti-sistema, ma una forza presente nei vertici delle istituzioni, come è possibile?

In Svizzera i governi sono formati più che sulla base di un programma specifico, sulla compresenza delle diverse forze politiche. Così, un partito può far parte dell’esecutivo ma contemporaneamente lanciare un referendum per modificare una norma. Si potrebbe dire che da noi si può essere in qualche modo allo stesso tempo governo e opposizione. Ed è questa possibilità che l’Udc, erede dei partiti agrari presenti nei governi fin dagli anni Venti, ha sfruttato per imporre la sua linea di “destra dura”, utilizzando a più riprese i referendum (contro la costruzione dei minareti e per l’espulsione dei criminali stranieri, ndr, agitando un discorso populista su diversi temi e inaugurando una forte personalizzazione della politica.

Vale per l’Udc il paragone con le “nuove destre” europee?

In realtà non c’è traccia nel suo discorso della critica al sistema dei partiti, alla “casta”, come invece fa ad esempio la Lega dei ticinesi. L’Udc critica sì l’establishment, ma lo fa combinando le caratteristiche del partito di massa, radicato nella società attraverso circoli e gruppi giovanili, con quelle del partito mediatico sempre in prima fila sulla scena della comunicazione. Una sorta di sintesi tra la Lega Nord e Forza Italia. In più, pur essendo stato spesso paragonato al Front National di Marine Le Pen e ad altre formazioni simili, appartiene a quell’area di partiti di ispirazione liberale che si muovono anche nella sfera governativa, all’interno di coalizioni durevoli. Ed è per questa via che si è arrivati al pieno sdoganamento delle sue posizioni.

Per anni il leader dell’Udc è stato il miliardario Blocher, mentre i vertici del partito vantano saldi legami con gli imprenditori, non tutti gli industriali erano però favorevoli al referendum. Come stanno le cose?

A differenza del Front National francese o degli eredi di Haider in Austria, l’Udc non è un partito anti-globalizzazione, bensì una forza nazional-liberista che coniuga l’interesse del mercato e quello delle imprese a partire dalla dimensione nazionale, ma non solo in quella. Il destino dei lavoratori svizzeri viene fatto coincidere con quello delle imprese per cui lavorano in un equilibrio che non può essere turbato né dall’afflusso di un numero eccessivo di immigrati, né da un’apertura economica indiscriminata all’Unione europea. I vertici dell’Udc sono parte integrante del mondo imprenditoriale svizzero che però è diviso tra chi lavora soprattutto con le esportazioni verso la Ue o utilizza i frontalieri e chi opera solo nel mercato interno. Ci sono perciò frizioni e punti condivisi. Quanto alla base elettorale del partito, è formata soprattutto da lavoratori dipendenti e piccoli padroncini molto sensibili al discorso contro gli sprechi del welfare o a temi come quelli dell’aumento del prezzo degli immobili nei centri dove vivono gli immigrati e alla questione del dumping salariale che hanno fatto da sfondo al voto di domenica.

Lei si è occupato anche del modo in cui gli svizzeri guardano al mondo globale. Quale fotografia del paese esce dal referendum?

Questo voto indica chiaramente come una parte degli svizzeri percepisce oggi la globalizzazione. In un paese che mette in campo uno dei sistemi più competitivi e aperti al mondo dal punto di vista economico, questa percezione si basa su un misto di senso della possibilità e di estrema paura. Secondo un’inchiesta realizzata per conto del Credit Suisse, la seconda banca della Confederazione, negli ultimi vent’anni la prima preoccupazione degli svizzeri è stata quella di poter perdere il proprio posto di lavoro. Infatti, da noi la disoccupazione è bassissima, tra il 4 e il 5%, ma chiunque può essere licenziato in ogni momento. Non ci sono posti fissi a vita, ma una competizione fortissima e costante. Perciò, anche se il paese è al centro dei processi globali dell’economia, o forse proprio per questo, cresce progressivamente anche il numero di quelli che vengono definiti come “i perdenti della globalizzazione”. Il referendum ci racconta di un paese spaccato a metà.