Il jazz è morto? Non si direbbe, assistendo al partecipatissimo Jazz is dead!, festival che si è concluso dopo tre giorni di concerti negli spazi del Bunker a Torino. Certo, dimentichiamoci di standard e bebop, perché qui le proposte musicali mettono in crisi anche le declinazioni più free di questo genere. Sono le mille contaminazioni e derive a caratterizzare fin dall’inizio il Jazz is dead!, approccio che ha fatto confluire nel festival artisti eterogenei e pubblici diversissimi, nomi come (tanto per dire) il rivoluzionario compositore francese Pierre Bastien o i Faust, tra gli iniziatori del krautrock. L’evento, nato nel 2017 per festeggiare i sessant’anni di Arci Torino e realizzato anche grazie alla vittoria di un bando della città dedicato alle nuove narrazioni di jazz, è curato dall’associazione Tum di Giorgia Mortara e Alessandro Gambo, che organizza concerti in diversi locali in città, come il Magazzino sul Po e, appunto, il Bunker. Per il primo anno, dopo l’annullamento della scorsa edizione a causa del covid, il festival ha dovuto rinunciare alla sua sede originaria, l’evocativo ex cimitero di San Pietro in Vincoli, preferendo uno spazio più grande per gestire al meglio l’affluenza dei partecipanti. Il programma, come sempre, è quanto di più multiforme si possa immaginare. Tra gli artisti presenti in quest’edizione, ci sono l’elettronica gentile della francese Felicia Atkinson, i ritmi trascinanti di Andrea, la tecnica immensa di The Fruitful Darkness, con Tony Buck dei The Necks e Gianni Gebbia (e chissà come sarebbe andata con Massimo Pupillo degli Zu, purtroppo assente). E ancora, il clubbing estroso di Jolly Mare, l’energia delle due formazioni local Oaxaca (con Boto dei Movie Star Junkies) e la Rhabdomantic Orchestra, insieme all’artista colombiana Maria Mallol Moya. E poi gli esperimenti radicali di Xabier Iriondo e Snare Drum Exorcism (cioè Franz Valente di Buñuel e Teatro degli orrori), l’improvvisazione viscerale del trio Frequency Disasters, con l’eccezionale Valentina Magaletti alla batteria, l’oscurità avvolgente di Hiedelem, duo guidato da Attila Csihar, cantante dei Sunn O))) e dei leggendari Mayhem.

A COLPIRE è la partecipazione, per degli ascolti tutt’altro che facili. Oltre un migliaio di ingressi al giorno (in un festival che ha sempre mantenuto l’ingresso gratuito), una lunga coda di giovani appassionati in paziente attesa, per accedere alla sala live con 220 posti. L’edizione del 2019, l’ultima prima della pandemia, ha contato più di 6700 presenze in tre giornate. «Torino è da sempre un posto dove c’è una bella scena, dove la musica si ascolta» spiega Alessandro Gambo, ideatore e curatore del festival, che viene da un lungo percorso da dj techno e poi organizzatore di rassegne. «E Jazz is dead! sta diventando un festival con un sacco di pubblico che viene da fuori, dalla Svizzera, dalla Francia, dalle altre regioni, c’è una partecipazione viva, anche grazie alla credibilità che negli anni ci siamo costruiti». Il festival è stato il luogo anche per sperimentare, su numeri non piccoli, l’adozione del green pass, obbligatorio per accedere agli spazi dell’evento, mentre nella sala interna erano obbligatori l’uso della mascherina e l’ascolto da seduti. Nonostante qualche opposizione, che ha forse tenuto lontano anche una parte del pubblico, la prova sembra aver funzionato. Se green pass ha da essere anche per i concerti e gli eventi dal vivo, bene, il settore della musica è pronto. L’inverno si avvicina, la pandemia non se n’è ancora andata. Ma non provate a toglierci i concerti, non questa volta.