«Dopo aver chiuso questo libro, continuerete a odiare la pubblicità ma in un modo molto più intelligente, più personale, più intimo». Così, sulle colonne di Libération, Marcela Iacub presentava l’ultimo libro di Emanuele Coccia ([/ACM_2]Il bene nelle cose. La pubblicità come discorso morale, il Mulino, pp. 142, euro 12). E se la giurista francese aveva ragione di sottolineare l’esperienza trasformativa provocata dalla lettura di un libro tanto singolare, peccava forse nel concentrarsi su un esito così negativamente marcato come l’odio. La lettura del libro di Coccia permette infatti di riconoscere in quelle cose che sono le merci nulla di meno che l’oggetto privilegiato della morale (di oggi e di ieri): se esse non sono da amare né da odiare, è perché esse andranno insieme conosciute e riconosciute come la superficie e il mezzo di un discorso pubblico e ubiquo sulla possibilità di essere felici. Dai muri delle città che abitiamo e attraversiamo, un’infinita distesa di réclame fa segno, grazie e attraverso alle merci, a una vita altra e migliore, qui e adesso. Emanuele Coccia ha scritto così, in una prosa scintillante, un grande libro sul presente e sul possibile.

Hai scritto un libro che farà alzare le sopracciglia a molti. Sostieni – contro parecchio senso comune, molta ideologia e quasi tutta la storia della filosofia – che il nostro rapporto con quelle cose che chiamiamo merci è ciò che definisce, oggi più che mai, lo spazio della morale. Come spieghi l’apparente paradosso che fa sì che il nome di merce implichi un implicito giudizio morale negativo allorquando – è quello che mostri – essa incarna, almeno in Occidente, l’ultimo nome del bene?

Si tratta in realtà di un falso paradosso: non c’è alcuna differenza sostanziale tra il discorso pubblicitario, che riconosce nelle cose prodotte, scambiate e consumate la fonte più immediata della felicità (cioè il Bene) e chi al contrario parla di merci come la causa ultima di ogni alienazione o si sforza di riconoscere nel nostro amore per esse la ragione strutturale della nostra incapacità di raggiungere la felicità. In entrambi i casi le cose, le merci sono identificate come cause morali e non come realtà moralmente indifferenti, oggetti puramente economici o materiali. Gli uni e gli altri parlano delle cose come delle intensità morali, fanno morale a partire dalle cose, dalle merci. E in questo senso la filosofia critica è solo una forma di pubblicità risentita; la critica al consumismo è la filosofia di pubblicitari di cattivo umore che si sforzano di comunicare quanto le cose più comuni possano essere causa del male e non del bene comune. A me interessava capire perché per gli uni e per gli altri, improvvisamente, le cose – di cui nella morale occidentale si parlava poco (o se ne parlava solo per dire che non se ne deve parlare in morale) – sono diventate le vere protagoniste della vita morale. Improvvisamente, per parlare di felicità bisogna parlare delle cose che ci circondano, che usiamo, che produciamo, che sogniamo. È normale del resto che sia così: più di un secolo fa Georg Simmel aveva già notato che in città ci sono più cose che uomini. La città è oggi lo spazio delle cose più che degli uomini ed è giusto che si pensi alla felicità, anche politica, a partire dai protagonisti della vita urbana: le cose. Ed è qualcosa che l’antropologia dice da anni: Daniel Miller lo mostra perfettamente nel volume Cose che parlano di noi. Un antropologo a casa nostra.

Il bene nelle cose è anche, tra molto altro, un saggio di antropologia urbana: i muri e, più in generale, lo spazio urbano «tatuato» di réclame, sono infatti cruciali a «sorreggere» il tuo argomento. Qual è il rapporto tra spazio pubblico e discorso pubblicitario e quali i tratti di unicità di una città che parla di sè esponendo un infinito catalogo di merci?

A differenza di quello che si è soliti scrivere o pensare a me sembra che il discorso pubblicitario sia una sorta di modello formale, retorico e strutturale dello spazio pubblico e non una sua degenerazione. Ed è normale che sia così. Con l’arrivo di televisione, telefoni cellulari, internet e social network la natura dello spazio pubblico è radicalmente cambiata: quello pubblico, per esempio, non è più uno spazio che si oppone al privato. Al contrario, è proprio soli, a casa, davanti a un televisore o a un computer che si è più esposti al discorso comune della società civile veicolato dai diversi media. Per questo la comunicazione pubblica non può che avere la forma della comunicazione pubblicitaria e sopratutto la comunicazione dell’intimo non può che avere la forma della comunicazione pubblicitaria: lo spazio della pubblicità è lo spazio per eccellenza dell’intimità collettiva.

Peter Szendy una volta ha scritto che per capire cosa sia una merce bisogna capire che cos`è una canzonetta. Io aggiungerei che per capire che cos’è oggi lo spazio pubblico bisogna pensare a un walkman o a un iPod. Lo spazio pubblico ha oggi la forma di un discorso intimo, la natura di un segreto sussurrato alle orecchie, che nessuno oltre te può ascoltare. Lo spazio pubblico era nato per combattere gli arcana imperii, i segreti dello stato, ora è diventato lo spazio della circolazione dei segreti sussurrati, non da persona a persona, ma in modo anonimo, lo spazio dell’intimità anonimamente condivisa. È quello che Facebook ha capito: lo spazio del sussurro e della confidenza anonima è diventato la via d’accesso all’universale per eccellenza. La pubblicità è stata la prima ad aver capito questo mutamento strutturale.

Nel libro ripercorri, dal totemismo al feticismo, una serie di blasonate teorie sul ruolo della merce. Sembra quasi – e questa impressione diviene più forte allorché chiami in causa l’oggetto artistico – che l’idea di dissociare la morale dall’agency operi come uno dei più profondi e impliciti interdetti della cultura occidentale. Perchè, in altre parole, è così difficile pensare il bene nelle cose?

In realtà al divieto teorico di pensare il bene come cosa, oggetto materiale,si sono sempre accompagnatisi, pratiche, realtà che andavano in direzione opposta. L’arte ne è un esempio eclatante; ma ogni forma di culto e di venerazione si compie quasi esclusivamente per interposto oggetto, attraverso la mediazione delle cose. Di fatto la rivoluzione industriale e il capitalismo sono stati, tra mille altre cose, una radicalizzazione di questo movimento, lo sforzo di ritrovare nelle cose, in tutte le cose prodotte, scambiate, immaginate una fonte morale, un immane tentativo di moralizzare la materia, in tutte le sue forme. È per questo che l’arte nella modernità è divenuta un paradigma essenziale: l’arte è stata la sola sfera in cui è stato lecito amare in maniera smodata le cose in quanto incarnazione del bene. Quanto è cambiato ora è che questo amore si è esteso a tutte le cose: la moda, il design ma anche lo sviluppo dell’industria informatica ci hanno abituato a pensare ogni cosa come fonte di felicità e di perfezione. La difficoltà sta proprio in questa universalità.

Nel passato la filosofia aveva pensato nel concetto di bene lo spazio in cui tutte le cose si fondono in unità: il bene è il luogo in cui tutte le differenze si stemperano, il luogo della fondazione della comunità.Coincidendo con tutte le cose materiali prodotte e desiderate da ciascuno ora il bene è diventato lo spazio in cui ogni cosa si distingue da tutto il resto, il luogo in cui ciascuno diverge dagli altri e proprio in questa differenza trova la sua perfezione. Il bene è ciò che separa e distingue le cose, non ciò che le unisce.

Hai apposto una «postfazione» al volume – «Per un ipperrealismo morale» – che sembra un vero e proprio manifesto per una filosofia futura che sia davvero una filosofia del presente. Perchè ti sembra così urgente immaginare una morale non moralistica? E cosa ha da guadagnare un filosofo a diventare un «bricoleur»?

Non si tratta di uscire dal moralismo. Si tratta solo di separare con cura l’osservazione curiosa e simpatetica dei costumi umani – ovvero dei modi e delle forme attraverso cui proviamo a essere felici – dal risentimento un po’ limitato che per secoli si è scambiato per morale. E non si tratta tanto di diventare un bricoleur, quanto di riconoscere che in fatto di morale non si può andare oltre il bricolage. I modi di invenzione della felicità sono sempre imperfetti, e non possono che esserlo. La morale è sempre un bricolage, perché è sempre uno spazio di invenzione e di sperimentazione incerta ed effimera. Non abbiamo la più pallida idea di come essere felici, veniamo al mondo con questo desiderio e le conoscenze ricevute sono molto spesso inappropriate, a volte perché si riferiscono a una felicità diversa da quella che vogliamo, altre perché nella trasmissione di mano in mano questi saperi si sono corrotti. E passiamo decenni a scoprire, sperimentare, inventare, senza sapere bene dove andare, facendoci spesso molto male. Oggi più che mai non possiamo fare altro che sperimentare.

Le due generazioni che ci hanno preceduto hanno distrutto tutto l’universo morale basato su famiglia e lavoro in cui l’umanità aveva vissuto per secoli. Non possiamo ereditare nulla del passato, il mondo morale cambia sotto i nostri occhi giorno dopo giorno e spazza via le capanne di costumi accumulati da padri, nonni, antenati. Siamo inventori, sperimentatori, primitivi che si scontrano con un nuovo mondo, e accumulano tecniche, scoprono giorno dopo giorno che la terra arriva molto più lontano di quanto ci è stato detto. Che cosa significa amare una volta che il matrimonio, la famiglia non esistono più? E cosa significa agire, fare quando il lavoro non è più l’orizzonte definitivo dell’esistenza. Sono tempi duri, ma c’è anche una luce che nessuno prima di noi ha visto, la luce pura degli elementi, il fuoco vivo nelle sue forme più pure. Siamo i primi, dopo centinaia di generazioni, a poterlo vedere di nuovo. E a dover costruire con quello e solo con quello. Le mani si bruciano in fretta, ma la posta in gioco è enorme. Per questo oggi più che mai dobbiamo avere il coraggio del bricolage e rifiutare ogni risentimento nei confronti del possibile.