L’assoluto, ma sarebbe meglio dire l’origine di un’arte narrativa e insieme il pegno di tutta un’esistenza, è il richiamo al messaggio d’oltretomba che l’allora diciottenne Luigi Pintor (1925-2003) non avrebbe mai voluto ricevere.

Si tratta della lettera che suo fratello Giaime gli spedì da partigiano in armi poche ore prima di passare il fronte e di perdere la vita per lo scoppio di una mina a Castelnuovo al Volturno, il 1° dicembre del 1943. In quella lettera, che è il testamento suo e di un’intera generazione, si dice appunto che la guerra, la guerra civile antifascista, ha deciso della vita di tutti e ha mutato il senso dello stare al mondo obbligando chiunque a uscire dal reclusorio della pura costruzione di sé, dai gesti convenuti di una cultura distaccata e appagata, infine da una educazione aristocratica che presumeva di restare indenne anche di fronte alla barbarie.

Quella lettera, che gli ritorna in mente a cadenza e alla stregua di un imperativo categorico, è alla base di ogni scelta successiva da parte di Luigi, a sua volta partigiano gappista nella Roma occupata dai nazisti, poi redattore all’Unità e dirigente del Pci, quindi fondatore del manifesto e maestro riconosciuto di almeno due generazioni di giornalisti, infine scrittore, nei suoi tardi anni, dalla pubblicazione di Servabo (’91) che si apre infatti col richiamo al messaggio postumo di Giaime.

Insigne scrittore di memoria e di ricordi, Luigi Pintor, nella limpidezza di lingua e di stile che è soltanto sua, come avrebbe ribadito l’uscita in sequenza, fino in punto di morte, di altri tre libri, sottili e levigati come al solito, quali La signora Kirchgessner (’98), Il nespolo (’01) e I luoghi del delitto (’03) ora finalmente riuniti in un unico volume dal titolo, che si immagina redazionale in mancanza di altre indicazioni, La vita indocile (Bollati Boringhieri, pp. 254, euro 16,50).

Sono quattro parti divise idealmente in due ante e la prima, costituita da Servabo e La signora Kirchgessner, è pensata nei modi di un romanzo di formazione. Ma in realtà si tratta di un romanzo di ricordi lentamente affioranti, riproposti come fossili o reperti liberati dall’alone di buio che prima li oscurava.

Non ci sono nomi propri né precise indicazioni topografiche, semmai figure emblematiche, rare e ribadite con pietà ossessiva alla ricerca dell’essenziale, quasi un repertorio di scene iniziatiche le quali, traghettate dal passato al presente in Servabo, vagheggiano o tentano il recupero di un senso alla vita che si presagisce invece dileguante: Cagliari anteguerra, le spiagge, la luce costernata di un mondo per lui inderogabile, magico nel suo chiarore elementare, e poi di colpo guerra e distruzione, la fuga in un altrove che promette pace e redenzione ma ancora ripropone, come sinistre meteoriti, la malattia, il dolore e da ultimo un’aura di tremenda evanescenza o di sostanziale vanità per ogni attimo vissuto e patito.

Nella Signora Kirchgessner, che sta al libro d’esordio come il verso sta al recto e dunque rende espliciti o più riconoscibili i propri referenti, il fondo di amarezza e di malinconia emerge nudamente al presente nei modi di una retrospettiva e, anzi, di un dialogo muto con lo spettro del fratello: «Spesso mi domando che effetto gli farebbe, se potesse vederla, la distesa di fango secco che ricopre oggi le terre promesse. […] Non riuscirebbe a trovare su nessun atlante la leggendaria città d’oriente che seppellì nella neve 147.000 guerrieri ariani. Inutilmente si guarderebbe attorno per capire dov’è finita la bandiera colorata che un soldatino piantò in gloria sulla porta Scea».

Se anche Stalingrado e la bandiera rossa issata sul Reichstag adesso sono meno che pallide decalcomanie, lo sguardo posato sul qui-e-ora rivela un paesaggio accorante nella sua banale, e micidiale, normalità: «Quando dall’alto degli anni guardo il mondo o la sua parodia girare sui piccoli schermi mi sembra un grande mattatoio impiantato su un grande immondezzaio». Poche immagini rendono con tanta esattezza la condizione che diciamo postmoderna o finalmente globalizzata.

Pintor, a leggerlo con attenzione, non è tanto uno scrittore di memoria (perché ne paventa il flusso nostalgico, riparatorio e, di fatto, autoassolutorio) quanto, al contrario, è uno scrittore di ricordi, sebbene di ricordi deprivati di connotazioni soggettive, per un fatto di riserbo e pudore ma per mantenere, soprattutto, quell’anonimato che li rende emblematici e, di conseguenza, universali.

In altri termini, se il sarcasmo (il «sarcasmo appassionato» che invocava Antonio Gramsci) è l’impronta proverbiale di Pintor giornalista, viceversa la pietas, una forma ricettiva e capiente del rispetto umano, è la cifra elettiva di Pintor scrittore. Cioè il compositore di una musica la cui partitura non è più riferita alle inversioni vibranti della sintassi o agli scatti delle clausole ma viene scandita in profondità e certe volte in sordina, non più nei modi di un pensiero scintillante e calcolato ma nell’ordine di una emozione trattenuta, serbata, di continuo ripensata.

Lo stile mantiene il consueto nitore dell’essenzialità ma, nella contenzione di ogni estro e licenza, si modula a un ritmo più posato e introverso, con lunghe pause ed ellissi silenziose che ritrovano e si alternano al bianco della pagina.

Col tempo lo stile del romanzo di formazione è divenuto lo stile della meditazione o anche della ricapitolazione interiore e così testimoniano Il nespolo e specialmente I luoghi del delitto. Qui i ricordi prendono il passo di pensieri vaganti e di aforismi, mentre il «prima» assoluto delle scene-madri o iniziatiche (il fratello, la guerra, la resistenza, l’impegno acerrimo nella politica) si rispecchia in un «dopo» non meno assoluto ma stavolta completamente disertato o persino desertificato, quando annota, per esempio: «Le rivoluzioni si fanno molte illusioni».

Agli echi lontani del conflitto politico, al venir meno del sogno di una cosa, allo sfacelo e al paesaggio di ironiche rovine che oramai è divenuto il mondo, via via si sovrappone il gelo di una perdita, una duplice perdita, che ipoteca il futuro ostruendolo per sempre.

Forse non esisterebbero i due libri terminali se Luigi non avesse perso prematuramente entrambi i suoi figli, Giaime e Roberta, ritrovandosi ancora una volta nella condizione del sopravvissuto. Qui è lui a dover dettare un testamento che sa di non poter contare su diretti destinatari, perciò si sente oppresso da un senso di colpa irremovibile, inespiabile, e arriva a ritenersi il responsabile di un duplice delitto, il più grave e nefando, che non ha mai commesso: «Mi trovo finalmente sul luogo del delitto che non ho mai commesso ma che non ho impedito e di cui mi confesso colpevole senza attenuanti. […] Ma la mia mente è un archeologo che scava tenacemente nel passato e mi conduce di prepotenza dove non vorrei andare».

Per estremo e più crudo paradosso, al compiersi della parabola egli ritrova gli spettri di una storia dissipata e andata a male nel volto impenetrabile, da sfinge, di una natura ostile e matrigna, quasi che la Natura, chiusa nella sua dinamica inviolabile, duplicasse in effigie la mattanza della Storia con il suo portato di dolore, morte, insensatezza.

Ed è infatti un messaggio leopardiano quello che ci lascia lo scrittore Luigi Pintor, il nostro compagno più indimenticabile.