Bankitalia non scrive che la lotta di classe è viva e la stanno vincendo i ricchi. Però offre i numeri per dirlo, visto che l’indagine biennale sui bilanci delle famiglie segnala un solo dato in controtendenza: fra il 2010 e il 2012, in una delle fasi più acute della crisi esplosa nel 2008, il 10% delle famiglie italiane più ricche ha aumentato il suo capitale. Dal già ragguardevole 45,7% della ricchezza netta familiare totale, è arrivato al 46,6%. La sperequazione è gigantesca in entrambi i casi. Ma diventa ancor più rilevante se paragonata al parallelo impoverimento della fascia più debole della popolazione: la povertà «pseudo-assoluta», indicata con un reddito di 7.678 euro netti annui per il singolo e 15.300 euro per una famiglie di tre persone, ha interessato nel periodo in esame il 16% dei nuclei familiari. Salendo di due punti percentuali rispetto al 14% del 2010.

Ricchi sempre più ricchi e poveri in aumento. In un quadro generale depressivo – la ricchezza media è diminuita del 6,9% – che nel biennio ha visto calare il reddito familiare medio del 7,3% in termini nominali, e del 6% in quello «equivalente». Tradotto in moneta corrente, metà delle famiglie vive con meno di 2 mila euro al mese avendo un reddito netto annuale inferiore ai 24.590 euro, e addirittura il 20% ha un reddito netto annuale inferiore a 14.457 euro, cioè circa 1.200 euro al mese. Sul fronte opposto, il 10% delle famiglie porta a casa ogni anno più di 55.211 euro, anch’essi naturalmente al netto di ritenute e tasse.

Sui risultati dell’indagine, effettuata nel primo semestre 2013 intervistando 8mila famiglie (22mila persone), ora pubblicata in un supplemento al bollettino statistico con il titolo «Bilanci delle famiglie italiane», via Nazionale invita come da prassi alla cautela. Precarietà, disoccupazione e inoccupazione montanti, con il conseguente aumento della sfiducia, possono aver inciso ancor più in negativo sulle risposte date ai ricercatori. Sul punto il vicedirettore generale di Bankitalia, Fabio Panetta, ospite ieri della Adam Smith Society, ha ricordato alcuni, brutali dati di fatto: «Dal 2007 il Pil è sceso del 9% e la produzione industriale del 25%. Le opportunità di lavoro sono diminuite con un numero di occupati calato di un milione di addetti. Mentre il tasso di disoccupazione sfiora il 13%, superando il 41% tra i giovani». Al tempo stesso Panetta non ha nascosto l’aumento delle sperequazioni fra ricchi e poveri, ricordando anche il dato di partenza all’inizio della crisi: «Gli indici di disuguaglianza sono peggiorati: il 10% delle famiglie più ricche deteneva nel 2012 il 46,7% della ricchezza, dal 44,3% nel 2008». Infine l’ennesimo monito: «Le conseguenze della crisi ricadono soprattutto sui giovani, le cui prospettive si sono offuscate rispetto alle generazioni passate». Con effetti diretti anche sulla composizione della famiglia italiana: dopo aver segnalato l’ulteriore progressione delle (non)famiglie composte da una sola persona, i ricercatori di via Nazionale non solo confermano il sorpasso (avvenuto già nell’ormai lontano nel 2000) dei capofamiglia anziani rispetto ai giovani, ma avvertono che nel 2012 solo il 9,4% dei nuclei aveva un capofamiglia – inteso come percettore di maggior reddito – con meno di 34 anni, mentre in un terzo dei casi aveva più di 64 anni. Quanto agli immigrati, stanno se possibile ancora peggio dei giovani: alla affannosa ricerca di un lavoro sempre più difficile da trovare, in caso di successo si accompagna comunque un valore mediano di reddito inferiore del 40% rispetto a chi è nato in Italia.

Forte anche il divario fra i generi e le diverse aree geografiche: il reddito individuale medio netto da lavoro (autonomo e dipendente) è inferiore per le donne (14.263 euro contro i 18.670 euro degli uomini) e nel sud e isole (14.982 euro rispetto ai 17.085 del centro e ai 17.729 del nord). Mentre la forbice sempre più ampia fra ricchi e poveri viene confermata dal fatto che il 10% delle famiglie con il reddito più basso percepisce il 2,4% del totale dei redditi prodotti, mentre il 10% di quelle con redditi più elevati percepisce invece una quota del reddito pari al 26,3%.