In uno studio di qualche anno fa Grégoire Chamayou aveva ricostruito una storia e una fenomenologia del potere a partire dalla sua natura «cinegetica», ossia prendendo le mosse dal ruolo decisivo che la caccia riveste nella conquista e nella conservazione del dominio sugli uomini. Una caccia, però, del tutto particolare: la caccia all’uomo (Le cacce all’uomo, manifestolibri). Non sorprende dunque che questa sua linea di ricerca lo abbia condotto a prendere in esame il congegno che, sostituendosi progressivamente ai più tradizionali strumenti tecnologici e organizzativi, rappresenta la frontiera più avanzata della caccia all’uomo: il drone, nel gergo militare Unmanned combat air vehicle (Ucav), ossia aeroveicolo da combattimento senza equipaggio (Teoria del drone, Deriveapprodi, pp 215, euro 17.00). Un occhio che indaga e uccide, senza limiti di spazio e di tempo. Insonne, attento, dotato di una memoria prodigiosa, raccoglie paziente gli indizi che fanno di un essere umano un nemico e dunque una preda. La insegue dal cielo in ogni luogo e in ogni suo gesto, ne traccia il profilo biografico e, infine, la abbatte. Ma a differenza del cacciatore, esposto al confronto con la preda, e sempre a rischio di vedere invertirsi le parti, di passare dall’inseguimento alla fuga, il pilota del drone siede al riparo da ogni minaccia in una cabina di comando, a migliaia di miglia dal suo bersaglio e dall’ambiente ostile che lo circonda, in un Olimpo dal quale partono i fulmini scagliati in un’unica direzione. Sorveglia e distrugge il mondo di ombre che popola il suo schermo e, all’altro capo della terra, una vita reale che piuttosto approssimativamente vi si riflette. Alla vittima non è dato combattere, nessun nemico è alla sua portata, né odio, né compassione, né paura filtrano attraverso il corpo metallico della macchina che esploderà il colpo fatale. Questa unilateralità insormontabile è ciò che sbriciola il concetto classico di guerra, nonché il diritto, fondato sulla reciprocità, che le si accompagnava, lo ius in bello. È ciò che fa la differenza tra il combattimento e l’assassinio, tra il soldato e il carnefice. Ed è la realtà, in vertiginosa espansione, di quella guerra permanente travestita da operazione di polizia globale (la caccia è infatti il modello principe dell’agire poliziesco) cui il XXI secolo ci ha ormai abituato. Una realtà che ha bisogno della sua ideologia, del suo quadro giuridico e perfino dei suoi principi etici, cui folte schiere di apologeti del drone si sono alacremente dedicati nel tentativo di tener salda la differenza tra un soldato e un assassino, tra uno stato e un mandante di omicidi.

Logiche coloniali

Queste macchine di morte senza equipaggio risponderebbero, secondo i loro sostenitori, a due fondamentali principi «umanitari». Il primo, quello di salvaguardare la vita dei propri soldati, consentendo di condurre una guerra senza caduti. Il secondo, quello di circoscrivere al massimo gli «effetti collaterali» di un attacco, individuando con precisione estrema il bersaglio e isolandolo da un più ampio contesto. Vuoi mettere un missile che fa terra bruciata in un raggio di 15-20 metri con un bombardamento a tappeto? Insomma il drone favorirebbe il risparmio di vite umane, rivelandosi un «male minore». Diceva Hannah Arendt che «coloro che optano per il minor male tendono velocemente a dimenticare che hanno scelto il male». Ma non si tratta solo di questo. Si dovrebbe aggiungere che il primo principio, quello di salvaguardia della vita, poggia su una netta distinzione, ben radicata nella tradizione colonialista, tra il valore delle «nostre vite» e l’insignificanza di quelle altrui (gli inglesi ricorrevano volentieri alle truppe indigene per non rischiare in proprio) e mette il manovratore dell’arma letale al riparo da emozioni, dubbi e responsabilità, se non dalla noia della sorveglianza. Una base piuttosto fragile sulla quale edificare un’etica.

Il secondo principio, anche a prescindere dalle «sbavature» che sono costate migliaia di morti civili, si presta a una replica infinita e a una arbitraria estensione della categoria dei bersagli («ogni individuo maschio in età per combattere presente in una zona d’attacco»). A forza di 15 metri si fanno i chilometri quadrati. E intere popolazioni sono costrette a vivere perennemente nel terrore di una morte incombente, sempre in procinto di piovere improvvisamente dal cielo. Ma alla guerra dei droni poco importa incutere terrore nella popolazione civile, alimentandone l’odio. Contrariamente alla classica strategia controinsurrezionale, che si serviva della presenza militare umana sul terreno del conflitto per conquistare politicamente la popolazione alla propria causa, la mattanza teleguidata non mira ad occupare, ma a sorvegliare e distruggere. Nessuna guardia carceraria si illuderebbe di ricondurre i detenuti alla propria causa. Ed è proprio in una immensa prigione sorvegliata dal panopticon volante che sono state trasformate vaste aree del pianeta. Così i tecnocrati della guerra permanente si sottraggono a qualunque dimensione politica, affidandosi all’esibizione di un potere invulnerabile e impermeabile a ogni necessità di dialogo o dicompromesso. Ma è proprio questo abbandono della politica a favore di una amministrazione ordinaria della violenza che abbisogna di una spiegazione filosofico politica. E in questo Chamayou è davvero maestro.

Una diffusa irresponsabilità

La domanda che si pone, a questo punto, è come la nuova arma, il drone, tenda a modificare il rapporto dello stato con i propri sudditi, in guerra, ma anche in pace. Secondo lo schema contrattualista hobbesiano l’obbligo di obbedienza è il prezzo della protezione sovrana. Ma quando lo stato entra in guerra, allora, si ha l’obbligo di difendere il potere di cui si è goduto in tempo di pace e cioè il sovrano. Questo rovesciamento getta una luce sinistra sulla sovranità, il cui imperativo è ora «dovete obbedirmi perché io sia protetto anche quando non vi proteggo più da nulla e soprattutto da me stesso». Che la si voglia mettere nei termini contrattualistici hobbesiani, o in quelli idealistici hegeliani della libertà realizzata nel confronto con la morte a maggior gloria dello stato, il sacrificio e l’esposizione al pericolo sono inscindibili dal rapporto dei sudditi con la sovranità statale, dalla loro appartenenza politica. Ma è proprio questo il nodo che la «dronizzazzione» tende a sciogliere, o più precisamente a mascherare, a partire proprio dalla guerra, consentendo di condurla senza alcun sacrificio, senza versare una sola goccia di sangue del proprio popolo. Vi è però, in questa opportunità, un risvolto inquietante: la guerra «a costo zero» si fa estremamente allettante, tanto da potersi condurre, se non proprio per capriccio, almeno sulla base di un flebile sospetto, di una fumosa idea di «prevenzione» e comunque in un clima di diffusa irresponsabilità. Fra l’altro non incontra nemmeno più l’ostacolo del «consenso» che il principio kantiano di cittadinanza le imponeva: poiché in gioco è la vita e la morte dei cittadini questi sono chiamati a esprimere il proprio accordo, e certo non sceglierebbero a cuor leggero. Grazie ai droni, oltre che senza sacrificio, la guerra potrà essere condotta anche senza consenso: poiché nessuno vi si mette radicalmente in gioco nemmeno gli si dovrà riconoscere voce in capitolo. L’intera società sarà così sgravata da una decisa riduzione dei costi politici, economici e d’immagine della guerra. Ma il problema è, come non mancherà di suggerire l’economista, che l’abbattimento dei costi accresce la domanda: la guerra a buon mercato troverà non pochi consumatori. Sottrarre la guerra alla sfera politica trasferendola a quella amministrativa, circoscrivere il numero di coloro che vi sono coinvolti e, ancor più, quello di coloro che detengono il potere di decidere, ridurre l’attenzione e il peso dell’opinione pubblica e della protesta popolare, sono gli scopi, per nulla reconditi, della dronizzazzione bellica. Destinata, infine, a fare da modello all’organizzazione securitaria dell’intera società.

Da quella inesauribile miniera che sono i Minima Moralia, Chamayou estrae una riflessione sulle V2 hitleriane lanciate contro Londra durante la seconda guerra mondiale, nelle quali Adorno rinviene i tratti tipici del fascismo: velocità senza soggetto, perfezione e cecità assoluta. In questa violenza senza battaglia né possibilità di difesa, dove il nemico funge da «paziente e da cadavere» il filosofo francofortese indicava un elemento «diabolico»: il fatto che «in un certo qual modo, si richiede più iniziativa che nella guerra classica, e che, per così dire, occorre tutta l’energia del soggetto per realizzare l’assoluta impersonalità».

La politica occultata

L’automazione non è frutto di alcun automatismo ma il risultato dell’impegno alacre di una soggettività politica determinata. E qui, la teoria del drone e della sua impersonale perfezione, si allarga a un ben più vasto orizzonte. «Organizzare il disinvestimento della soggettività politica – scrive Chamayou – è oggi diventato il compito principale di questa stessa soggettività», per concludere, infine, che la traccia indicata da Adorno consente di rispondere a una domanda che ossessivamente ci si pone sullo sfondo del neoliberismo e della postmodernità, ossia dove si trovi il soggetto del potere? La risposta è questa: «precisamente lì dove lavora attivamente per farsi dimenticare». Che si tratti del drone pilotato da un anonimo tecnico, di un robot, in tutto e per tutto autonomo, ma incapace di disobbedire perché programmato secondo le leggi della «guerra giusta», o delle scatole cinesi in cui si cela l’espansione del capitale finanziario, c’è sempre qualcuno che aspira ad essere dimenticato. Un rapporto sociale travisato da indiscutibile oggettività. È questa sparizione che preserva il potere dai costi del suo esercizio, dalla responsabilità dei suoi atti e dalla reazione delle sue vittime. E che tende a trasformarsi in un modello generale di controllo e di governo oligarchico della società. Sulle ali di un aeroplanino telecomandato vola anche questa sinistra prospettiva. Sicché converrà compiere uno sforzo per non dimenticare il cacciatore che si cela nell’anonimato.