«Una mattina sono in pollaio a dare il pastone alle galline e sento gridare forte. Guardo giù in strada e vedo il Giacomino con la sua divisa nera da messo comunale correre su per la salita con un pacco in mano. Tutte le donne sono uscite in strada a vedere chi gridava a e anche mia madre è uscita sul balcone. Il Giacomino si è fermato davanti al mio cancello e gridava come un matto La gamba la gamba è arrivata la gamba del Felice». Inizia così il romanzo di formazione di Sergio Bianchi La gamba del felice (DeriveApprodi), che si dipana attraverso piccoli bozzetti di un passato che l’autore riesce a non rendere mai elegiaco né nostalgico: né Olmi né Bertolucci, da queste parti. Più che un vero passato, quello narrato in questa pagine è un tempo sospeso ancora presente al narratore che lo rammemora, ma già sul punto di allungarsi verso il futuro dal quale viene rievocato.

Sul punto di abbandonare la Berlino natia dopo l’avvento del nazismo, Walter Benjamin affidò a una raccolta di ricordi, Infanzia berlinese, quello che non avrebbero mai potuto portargli via – compreso il segreto dell’origine del nazismo celato dentro la fola infantile dell’omino gobbo, il demone della sfortuna. Come il suo antecedente, anche questa infanzia lombarda troverà il proprio senso solo nella pagina che la conclude, e che rimanda alla biografia adulta dell’autore: che è editore, saggista, narratore, ma anche voce narrante/narrata de Gli invisibili di Nanni Balestrini. E di Balestrini si trova un’eco importante nella resa dell’oralità del racconto attraverso l’abolizione di quasi tutta la punteggiatura: è, questo, un libro non solo da leggere, ma da declamare. Anche le ricette sparse nel racconto hanno una loro sensorialità e fisicità: gesti, sapori, aromi, ma anche pratiche, abitudini comportamenti.

Infanzia lombarda, s’è detto. Dunque di boschi e laghi, di giochi e di bande. Ma soprattutto, di come quest’infanzia viene poco a poco portata via, amputata: come l’amputazione senza anestesia che patì il Felice. C’è un tempo dell’infanzia che viene portato via dall’abbandono della scuola e dall’ingresso del «ragazzo problematico», come lo direbbe oggi il chiacchiericcio psicopedagogico che nasconde i problemi dietro le etichette. C’è un luogo dell’infanzia, con i suoi spazi aperti, che poco a poco viene portato via dai muretti e dalle recinzioni e dalle cancellate, e dal cemento: «Tutti facevano il cemento e cementavano dappertutto. (…) Ai lati dei cancelli hanno alzato dei pilastri e sopra hanno messo i leoni di cemento le aquile di cemento i vasi e le palle di cemento. Finiti questi lavori sono cominciati i sottoscavi delle case per fare le cantine per aumentare le volumetrie delle case che così acquistavano più valore». C’è il bosco, che il grande incendio porta via in una scena apocalittica, e dopo l’incendio arrivano i reticolati di filo spinato, i cartelli che dicevano «Proprietà privata divieto d’accesso», i camion e le ruspe e le ville protette dalle recinzioni in cemento armato e dalle cancellate di ferro – «Così senza che ce ne siamo resi conto ci hanno portato via il bosco e l’hanno distrutto tutto». C’è il Grande Castagno che viene abbattuto per costruire un palazzo.

E c’è la fabbrica che dà lavoro al paese, che gli abitanti hanno ricostruito dopo la guerra e per la quale hanno lavorato come muli: che chiude, perché c’è «la congiuntura», e riconvertita, e gli operai convinti dal nuovo direttore della fabbrica a costruire officine e piccole fabbriche, o a comprare macchinari da installare a casa per lavorare a cottimo, perché così si costruiva «l’indotto». Il paese diventa una fabbrica diffusa, e il giovane Sergio comincia a comprendere il potere delle parole, la loro capacità di risignificare cose e persone all’interno dei recinti di senso tracciati dal potere. Il narratore Sergio Bianchi cerca di restituire alla loro origine quei luoghi, quelle figure umane, quelle relazioni che la storia ha risignificato in altro modo: non fa altra cosa come editore, quando restituisce alla loro origine di classe i documenti di un decennio di rivolte di un’intera generazione che altri hanno relegato nel recinto del romanzo criminale.

Le relazioni, e con esse gli affetti: il paese che si ritrova a improvvisare la grigliata per la gamba del Felice, l’andar per bande nei boschi con la tenda, a costruire la capanna sugli alberi o a pescare nel lago. Le notti da contrabbando – siamo sull’altro ramo del lago di Como rispetto al romanzo Con i piedi nell’acqua di Cecco Bellosi. Il primo localino, messo su con mezzi di fortuna e un juke box costruito in casa da quello bravo in elettrotecnica, e i dischi degli anni Sessanta, a far germogliare qualcosa che ancora non aveva parole. Altrove Sergio Bianchi riapre la «pattumiera della storia» per estrarne le vite condannate a cent’anni di solitudine, qui ne mostra l’origine materiale: da questi paesini, da queste avventure ai margini apparenti del boom economico, da questa istintiva e un po’ rurale avversione verso l’autorità, da quell’ingiustizia profonda che apprendiamo dalla lettera che giunge all’io narrante dieci anni dopo, nascerà quella rude razza pagana che calpesterà, nel decennio 1968-1977, le strade e le piazze di una metropoli diffusa che non ha più centro né periferia. Non erano mostri né marziani: ci voleva un romanzo di formazione per mostrarlo.

Il più bel romanzo erotico della letteratura italiana è fatto di tre sole parole: «La sventurata rispose». Ne serviranno tante, di parole, durante e dopo gli anni della rivolta, per dire quello che c’era e quello che c’è stato. Per dire la rivolta che viene, che sta per venire, nel momento esatto in cui il romanzo si chiude, a Sergio Bianchi ne bastano, per l’appunto, non più di tre: «Allora mi incazzo».

Chapeau!

 

Il testo è stato pubblicato anche nel sito Internet www.carmillaonline.com