Festival concepito come un cantiere delle arti, nel quale si incrociano generi e tendenze, Fabbrica Europa si è disteso tra maggio e giugno non solo nello spazio sempre prodigioso della Stazione Leopolda di Firenze, ma anche in altri luoghi della città, compreso il nuovo teatro dell’Opera del Maggio Musicale Fiorentino. Tra le proposte di danza che abbiamo seguito partiamo da Violet, titolo dell’americana Meg Stuart, presentato alla Leopolda in prima nazionale. Stuart è un’artista di pregio, ricercatrice determinata, che con la sua compagnia Damaged Goods, di casa tra Berlino e Bruxelles, è portavoce di un lavoro che apre costanti interrogativi sul movimento e la messa in scena. Violet è un quintetto di soli: cinque danzatori (tre uomini, due donne), spazio vuoto, salvo uno sfondo argenteo che riflette in controluce i corpi. Sulla sinistra della scena, Brendan Dougherty, alle percussioni in mix con la musica elettronica.

Violet non è uno spettacolo facile per lo sguardo, impone una presa di posizione. Inizia con i danzatori immobili in fila frontale a un passo dallo sfondo, interpreti/autori che, piano piano, in crescendo, muovono parti diverse del corpo in un solitario flusso energetico. Non si sa bene chi seguire. Se l’occhio vaga da uno all’altro senza una scelta di tempo, di azione sul visto, la sensazione è che sfugga qualcosa, che non resti nulla se non la consapevolezza di avere di fronte degli ottimi danzatori. E ovviamente da Meg Stuart ci si attende altro.

Ci siamo imposti un compito: individuare un danzatore, stare con l’occhio incollato al corpo in movimento del prescelto, sul posto o nello spazio, avvicinandosi con lo sguardo, come se si avesse nell’occhio uno zoom incorporato, a un punto focale nel fisico e nel moto: una mano, un braccio, un gomito, un piede, la testa, una parte portante. Restare con lui o con lei fino a quando lo dettava l’attrazione dello sguardo e poi via, passare a un altro soggetto.

Viaggiando con uno sguardo attivo da un danzatore all’altro attraverso lo spazio, creandosi un proprio tempo e ritmo di osservazione, le onde coreografiche intrecciate tra corpi solitari si facevano improvvisamente brillanti. Una vivacità di dinamiche pulsante, con continui giochi di messa a fuoco e sfocature, tra corpi nell’occhio in primo piano e corpi pronti a diventare sfondo. La musica, piena, feroce nel crescendo percussivo, avvolgeva le danze singole in un magma sonoro unendole nella diversità e indipendenza. La relazione tra la danza dei singoli, la coreografia dei cinque e lo sguardo dell’osservatore trovava un suo perché nel cercare una propria strada dentro una collettività fatta di azioni solitarie. Come nel web.

Peccato che quando i cinque si ritrovano di fronte, di nuovo in fila, ma al limite estremo della scena verso il pubblico, lo spettacolo non chiuda. Si percepisce fortemente una fine. Invece la danza ricomincia, creando intrecci tra quei corpi che mai prima si erano toccati. L’idea è buona, ma il rotolare a terra uno sull’altro è meno inventivo del linguaggio dei singoli danzatori e soprattutto la tensione fa fatica a decollare di nuovo. Una coda che potrebbe essere eliminata, a vantaggio della tenuta complessiva.

Sullo sguardo gioca anche, pur nella diversità di intenti e di scelte estetiche, Singspiele di Maguy Marin, al teatro Goldoni in prima assoluta. Interprete unico David Mambouch. La scena è semplice. Un uomo, tanti abiti appesi sul fondo, da indossare via via. Sul volto maschere di carta, strappate, come da un block notes, una dopo l’altra. Il vecchio, il giovane, il personaggio famoso, le citazioni dal cinema, la donna in tailleur rosso che ricorda le bionde di Hitchcock come i danzatori travestiti della Coppelia della stessa Marin, nella quale, il tema dell’inganno dello sguardo era non a caso centrale. Lo spettacolo è lento, esasperante per certi versi, sappiamo già, dopo poco l’inizio, che dovremo attendere pazientemente fino a che Mambouch non indosserà l’ultimo vestito appeso sulla sinistra della scena. La performance racconta la condizione umana di cui è metafora quella semplice maschera di carta, bastante a mutare il peso del gesto, l’età del corpo, la percezione dell’identità. Una metamorfosi senza fine del soggetto sulla fragilità che ci accomuna, tema ipnotico, ritmo teatrale faticoso.

Nella ex Chiesa San Carlo dei Barnabiti, Simona Bucci, italiana, già danzatrice con Alwin Nikolais, docente e coreografa di grande sensibilità, ha presentato il nuovo Enter Lady Macbeth. Musiche originali di impatto firmate da Paki Zennaro, collaboratore storico di Carolyn Carlson, lo spettacolo è un’immersione nel femminile, interpretato da cinque magnifiche danzatrici: Eleonora Chiocchini, Sara Orselli, Francoise Parlanti, Maru Rivas e Frida Vannini. Il lavoro, avvolto nelle luci ora calde, ore livide di Gabriele Termine, esplora il femminile attraverso cinque volti e cinque assoli.

Sono donne primitive, novelle Eve, che si muovono inizialmente insieme: un branco ferino eppure delicato. Una dopo l’altra tirano fuori individualità misteriose, qualità del femminile, emerse dal profondo. Tagliente, impulsiva Vannini, centrale nel riferimento umorale a Lady Macbeth, volto di donna intorno al quale si legano le sfaccettature portate in luce dalle altre interpreti, la bellezza, la sensualità (Orselli), la capacità di legarsi al cielo (Chiocchini) e alla terra, la dolcezza come istinto materno, la capacità di vendetta. Il legame alla tragedia di Shakespeare va però tenuto come riferimento lontano, uno spunto che introietta Lady Macbeth in uno scavo sulla natura che vive nello spettatore di una sua autonomia. Il titolo infatti è suggestivo, ma rischioso: può deviare l’attenzione, che merita invece di fluire libera nelle pieghe di un viaggio al femminile.