A lungo indeciso tra il rugby e le arti Shigeru Ban prese la decisione finale quando perse malamente la sua prima partita da titolare nella serie A giapponese. Allora decise di lasciar perdere la Waseda University, fortissima nel rugby e di iscriversi alla Tokyo University per studiare architettura. Apprezziamo il lavoro di Shigeru Ban e lo ringraziamo di non aver scelto il rugby da almeno vent’anni: oggi possiamo confermare una volta per tutte che fece la scelta giusta. Infatti, da un paio di giorni è il trentacinquesimo Pritzker Laureate, titolare della massima onorificenza nel mondo dell’architettura.

Shigeru Ban è un progettista molto particolare. Educato, come abbiamo visto, a Tokyo e poi in due scuole americane molto «di tendenza», la Sci Arch di Los Angeles e la newyorchese Cooper Union, si è costruito fin da subito un percorsoassai individuale. Il suo lavoro è memore della ricchezza della tradizione modernista giapponese, ma ha, allo stesso tempo, un carattere più rude e immediato, influenzato forse della passione per il rugby e per i valori molto poco glam che caratterizzano quello sport: lealtà , coraggio, collaborazione, molta voglia di sporcarsi le mani (magari di fango). E le mani Shigeru Ban se le è sporcate spesso, specializzandosi da subito in architetture per l’emergenza e accorrendo a sperimentarle e metterle a disposizione ogni volta che i disastri le rendevano davvero necessarie: Kobe, Rwanda, Cina, India, Haiti, L’Aquila, Onegawa.

La necessità di costruire velocemente a prezzi stracciati ha stimolato nel progettista nato a Tokyo nel 1957 una ricerca radicale e inusuale sui materiali e le tecniche di costruzione: carta, tubi di cartone, legni poveri, container, stoffe. Questa strana idea di costruzione leggera e «da montare» ha fatto da elemento di connessione tra i suoi lavori emergenziali e quelli di carattere più professionale, come la splendida serie di ville e case minime realizzate in Giappone dagli anni novanta in poi. La prima ad arrivare sui nostri tavoli, grazie a un servizio su Casabella fu la casa Curtain wall del ’95, dove in sostanza non c’era differenza tra le tende e la casa stessa.

Dopo molti altri progetti di successo oggi Shigeru Ban è, a modo suo, una star consolidata, con atelier a Tokyo, New York e Parigi. Ha avuto per sei anni uno studio aperto sul tetto del Beaubourg, ha edifici in costruzione in diverse parti del mondo, ha vinto decine di premi, ha insegnato a Harvard, Cornell e in molte altre scuole. Nonostante questo il suo lavoro non abbandona la natura povera e sperimentale delle opere più giovanili, e il suo impegno rimane alto, come si è visto in occasione dello tsunami giapponese o del terremoto dell’Aquila. Semmai negli edifici maggiori il metodo da bricoleur di Ban tende a evolvere verso una specie di monumentalità domestica e inusuale, con intrecci barocchi di tubi di cartone e nervature quasi floreali, come si vede nel Centre Pompidou di Metz e nella Golf Club House coreana.

Guardando giornali e agenzie l’impressione è che molti interpretino questo premio a Shigeru Ban come la conferma di uno «spirito del tempo» ormai ostile alle archistar e all’iperlusso architettonico. Certamente i tre ultimi premi – Wang Shu, Souto de Moura e questo – danno l’impressione di voler celebrare ricerche più appartate e sensibili al senso delle crisi (economica, ecologica, espressiva) che attraversiamo. Ma col Pritzker non è mai detto, basterebbe una vittoria a Steven Holl o a Peter Eisenman – due che in qualche modo se lo aspettano – nel 2015 per smentire la tendenza.

Più interessante forse notare che si tratta della quarta volta in cinque anni che il premio va a uno studio asiatico. E che per la terza volta, sempre nelle ultime cinque, va a un giapponese (Sanaa, Toyo Ito, Shigeru Ban, che si aggiungono a Tange e Maki). Forse qui possiamo trovare un’argomentazione un po’ più sottile. Vale a dire che nell’epoca in cui le archistar più acclamate costruiscono edifici spettacolari e multimiliardari, nel lontano Oriente il Pritzker premia architetti che vengono da quei paesi e che in lavorano spesso a una scala di versa, con un’attenzione maggiore al valore sociale e comunitario dell’architettura.

Questa, con tutta la volubilità di giurie che cambiano quasi ogni anno, potrebbe essere una lettura politica della scelta dell’edizione 2014.