Può suonare sinistro sentir parlare di un «terzo regno» (Drittes Reich) in Germania nel 1933. L’espressione ricorre in molte opere dell’antropologo Leo Frobenius, e non poteva mancare (sia pure con una sola occorrenza) nella sua Storia della civiltà africana, summa e compendio di decenni di esplorazioni e di studi, riproposta oggi in italiano da Adelphi (traduzione di Clara Bovero, pp. 483, euro 35,00). A scanso di equivoci, va chiarito subito che non c’è qui alcuna volontaria allusione al nascente regime hitleriano ma semplicemente l’uso di una terminologia proposta dall’autore già sul finire dell’Ottocento.

Il «terzo regno» è la cultura (ribattezzata «Paideuma»), che nella sua concezione si affianca, come caratteristica dell’uomo, ai primi due regni della natura, quella inorganica e quella organica. Questo riferimento alle scienze naturali non è casuale: anche il «Paideuma», è – in fondo – visto alla stregua di qualcosa di organico: «la civiltà è un organismo»; «l’evolversi della civiltà corrisponde in tutto alla struttura più evidente all’occhio umano, quella della pianta». In ciò si sentono riecheggiare le posizioni che in linguistica avevano dominato il XIX secolo, soprattutto in Germania, quando l’esaltazione per le sempre nuove scoperte tendeva a farne una scienza «esatta» al pari delle scienze naturali, inducendo a considerare anche la lingua come organismo naturale, con una sua linea evolutiva di tipo darwiniano.

Di fatto, pur affermando risolutamente e a più riprese la propria totale contrapposizione alla ricerca etnografica precedente, anche Frobenius rispecchia nella sua opera il clima delle grandi ricostruzioni e sintesi teoriche che, dalla nascita dell’indeuropeistica in poi, hanno informato di sé gran parte delle scienze umane e sociali. L’ambizioso obiettivo che si pone è infatti quello di tracciare le linee evolutive dell’intera civiltà umana dalla preistoria al giorno d’oggi. Lo dichiara esplicitamente il sottotitolo dell’edizione tedesca «Prolegomeni di una morfologia della storia» (Prolegomena zu einer historischen Gestaltlehre). La novità che reclama Frobenius circa il proprio orientamento consiste nel rigetto di tutto ciò che è razionalismo e materialismo. Le teorie che legano il progresso della civiltà al soddisfacimento dei bisogni sono troppo «meccaniche» e superficiali nella misura in cui si limitano a occuparsi di fatti. E così, anche il dato economico viene considerato superficiale: «la differenza tra cacciatori e allevatori, economica e perciò anche politica, non riguarda affatto la concezione del mondo; non appare intimamente profonda.»

È la commozione che muove il «Paideuma», facendo uscire l’umanità da uno stato di natura in cui si confondeva con la natura stessa e dirigendola verso forme di civiltà via via più evolute tendenti a separare sacro e profano, per approdare alla fine alla razionalità imperante nelle civiltà moderne (una «curva metafisica», sempre secondo questa terminologia). La commozione, impossibile da afferrare nell’atto in cui si produce, visto che coinvolge tutto l’essere, tende a diluirsi e poi sempre più a svanire mano a mano che l’uomo si oggettiva, si distacca dall’unità con la natura e crea dapprima un mondo che «vive» nel mito (così le culture africane che conservano i tratti più remoti) e poi un mondo in cui le istituzioni sacre e quelle profane occupano ambiti ben distinti («io sono – il mondo sia»).

La intima e irrisolta contraddizione di Frobenius è quella tra l’aspirazione alla razionalità e la ricerca dei modi di manifestarsi della «commozione»: quei moti dello spirito, che per definizione sfuggono a qualsiasi trattazione razionale. «A noi, figli del secolo XX, s’addice di vivere nella pienezza dello spirito soltanto quando essa ci appare ordinata. Noi vogliamo, dobbiamo risolvere la confusione»; «lo studio della civiltà dev’essere guidato dall’aspirazione all’unità». Il verbo «dovere» si ripete a volte in modo ossessivo in tutta l’opera, tradendo un imperativo cui l’autore sentiva di non potersi sottrarre.

Ma come è possibile cogliere ciò che non viene espresso perché inesprimibile? «Poiché nessuno parla di quello che dai tempi remoti è inconcepibile in altra forma, tutti lo serbano nell’intimo… Poiché nessuno esprime con parole queste cose evidenti, non ha mai fortuna una formula piatta … Ognuno vive. E nessuno plasma». L’arte e il mito, prodotti di questo distacco che porta a esprimersi, tanto più si formalizzano quanto più si inaridisce la commozione. E Frobenius si ostina a interrogare le testimonianze più arcaiche, più prossime alle origini, per avvicinarsi quanto più possibile a questo punto zero della commozione, meta ideale per definizione irraggiungibile.

Il piano dell’opera è semplice e rigoroso: a una prima parte introduttiva, più breve ma molto densa, in cui vengono esposti i capisaldi teorici desunti dalle ricerche fino ad allora svolte, fanno seguito due altre parti, più lunghe e ricche di esempi e approfondimenti, destinate a illustrare l’una i tratti culturali che si desumono dai diversi manufatti (pittura, scultura, architettura) e l’altra i tratti arcaici ricavabili dai vari tipi di testi orali giunti fino a noi.

La mole del materiale esaminato, e illustrato da un gran numero di immagini, tavole fuori testo e carte geografiche, è impressionante. Da una decina di viaggi africani durante i quali ha lasciato inesplorate ben poche parti del continente, Frobenius ha riportato una grandissima quantità di reperti. Non solo oggetti materiali, che hanno arricchito più d’un museo etnografico, ma anche – e soprattutto – una massa di appunti su credenze, miti, riti e racconti. Un patrimonio tuttora lungi dall’essere pienamente messo a frutto dai ricercatori e di cui un consistente assaggio – ma pur sempre un assaggio – è quel Decamerone nero che da poco è stato ripubblicato da Aragno. In quella massa Frobenius, usa le proprie teorie per orientarsi, e individua stratificazioni e sovrapposizioni di popoli e di culture che obbediscono a schemi in definitiva relativamente semplici.

Schematizzando molto, nel continente africano egli individua due filoni culturali principali, che si contrappongono in modo quasi speculare: la civiltà da lui considerata più arcaica e denominata «etiopica», estesa soprattutto nella fascia centrale ed occidentale, e quella «camitica», che comprende il nord e il nordest, con una propaggine nell’estremo sud (quest’ultima entità sembra corrispondere al «camitico» tratteggiato in linguistica da Carl Meinhof, che includeva le lingue degli «Ottentotti» in quanto dotate anch’esse di una distinzione di generi). La prima sarebbe caratterizzata da una predilezione per la scultura e per un tipo di abitazione sopraelevata come le palafitte; la società seguirebbe un modello di tipo patriarcale, non conoscerebbe la proprietà privata individuale, e avrebbe una visione spaziale «centrifuga», che si irradia all’intorno a partire da centri fissi. Viceversa, nella civiltà camitica prevarrebbe il disegno e le abitazioni sarebbero di tipo sotterraneo per i sedentari e una tenda mobile per i nomadi; inoltre vigerebbero il matriarcato, la proprietà individuale e una visione «centripeta» dello spazio.

Le due culture incarnerebbero due diversi punti della «curva metafisica». In quella etiopica «il profano non è ancora coscientemente distinto», il rapporto coi morti è improntato al manismo e all’ «abbandono»; mentre in quella camitica «esiste soltanto una vita profana, regolata secondo le leggi fisiche», prevale l’agire e lo sciamanismo ha soppiantato il manismo. Per questo essa si trova a una maggiore distanza rispetto alla commozione originaria: «la civiltà camitica non conosce la commozione nel senso più profondo». Su questa seconda impresa Mancosu riporta materiali assai interessanti che evidenziano l’intervento della Cia e dei servizi britannici, che avrebbero fornito una copia fotografica del romanzo, anche se da quale manoscritto non risulta del tutto chiaro (probabilmente quello consegnato da Pasternak a Isaiah Berlin). Proprio il riconoscimento da parte della Michigan University, nel 1959, dei diritti di Feltrinelli porterà poi a una nuova edizione del romanzo, accanto a quella realizzata da Feltrinelli stesso presso Mouton, e alla ripubblicazione sul giornale russo dell’emigrazione Novoe russkoe slovo.

Contestualmente Mancosu riporta tutta una serie di materiali che negano la indispensabilità della pubblicazione in russo del romanzo nella prospettiva di una eventuale attribuzione a Pasternak del Nobel.

Successivamente, sarebbero uscite altre edizioni in russo di Zivago. Lo stesso Feltrinelli ne pubblicò una nel 1959 – che non soddisfece Pasternak per i numerosi refusi –, per poi riproporne due nel 1961 e nel 1978. E sarebbero continuate ad apparire edizioni pirata, per lo più destinate ai canali del tamizdat, la letteratura proibita destinata al lettore sovietico. Mancosu mette in evidenza le tante questioni testuali relative alle differenti edizioni russe, che avrebbero trovato troveranno una soluzione definitiva solo con l’edizione accademica del romanzo apparsa in Russia nella raccolta delle opere curata da Evgenij Pasternak nel 2004. Certo il «romanzo sul romanzo» si snoda poi nei successivi tentativi di diffondere Zivago in Russia e si concluderà soltanto con la pubblicazione del romanzo proprio sulle pagine del giornale «Novyj mir» con trent’anni di ritardo, nel 1988, con prefazione di Dmitrij Lichacev.

Con il suo libro Mancosu offre al lettore una visione chiara, articolata, pacata e esaustiva del caso Pasternak, del ruolo svolto dai protagonisti, ma anche dei tanti editori, traduttori, letterati, giornalisti e legali che in tutto il mondo parteciparono alla «stesura» di questo appassionante «romanzo sul romanzo».