Con un accanimento degno di miglior causa la Commissione europea ha ieri collocato l’Italia fra cattivi della classe, anzi fra i pessimi, alla luce dei parametri della «Procedura per gli squilibri macroeconomici». Quest’ultima è parte del «semestre europeo», bizantino insieme di regole di sorveglianza su bilanci e dati macroeconomici con tanto di sanzioni per chi non vi ponga rimedio. Per la Commissione, 14 Stati membri presentano squilibri, considerati «eccessivi» solo per tre fra cui il nostro (con Croazia e Slovenia). Nella lista dei cattivi anche Germania e Francia.

All’Italia viene imputato il livello elevato del debito pubblico e la fragile competitività estera la cui causa ultima sarebbe il protrarsi di una debole crescita della produttività. Veniamo dunque richiamati a porre il rapporto debito/Pil su un deciso sentiero di riduzione attraverso un maggiore rigore (sic) dal 2014. Simili rimbrotti vengono rivolti alla Francia, mentre il tono della Commissione si fa più dolce con la Spagna, di cui si elogiano gli aggiustamenti (dimenticando che fra i parametri sotto osservazione ci sarebbero anche la disoccupazione e il debito estero per i quali la Spagna meriterebbe l’espulsione dalla scuola). Persino all’osservatore esperto è complicato commentare affermazioni sgangherate quali si ritrovano nel rapporto della Commissione. Come si fa da un lato a lamentare che uno dei problemi europei sia la scarsa crescita della domanda e degli investimenti, e per l’Italia della produttività, e poi imporre altre misure di restrizione fiscale? Tutti sanno che investimenti e produttività dipendono dalla domanda aggregata e quest’ultima dalle politiche di bilancio. Con Lanfranco Turci denunciammo ieri come l’ossessivo e ossequioso rispetto italiano del vincolo del disavanzo al 3% – mentre Francia e Spagna lo violavano benedette dalla Commissione – spiega perché siamo gli ultimi nella crescita. Ma la Commissione ha la faccia di chiederci ulteriori contrizioni. La stessa Commissione bacchetta invece con fare servile i surplus commerciali tedeschi premurandosi di dire che essi non sollevano i medesimi rischi dei disavanzi, al massimo “meritano un’attenzione molto ravvicinata.” Con fare untuoso si ascrive a Berlino di avere più che superato gli obiettivi di aggiustamento fiscale il che, si ammette, può creare degli “effetti avversi” sul resto dell’Unione Monetaria vista la dimensione della Germania. Basterebbe questo per porre Berlino e non Roma sul banco degli accusati.

In via di principio le procedure per gli squilibri eccessivi culminano in sanzioni. La politica Ue è però fatta anche di molta ipocrisia. Il prossimo anno entra in vigore il fiscal compact con l’obbligo teorico di ridurre il rapporto debito pubblico/Pil di un ventesimo all’anno sino al livello del 60%, con tanto di sanzioni quasi-automatiche per gli inadempienti. Questo ci imporrebbe surplus di bilancio tali da far impallidire l’austerità sinora subita. Non se ne farà nulla, anche se non sarà semplice per l’Europa trovare le scappatoie per non imporre sanzioni. Ma ben vengano se esse portassero a una grave crisi istituzionale europea che ponesse fine a questa vicenda. Auspicandola democraticamente, qualche giorno fa un noto storico economico, Kevin O’Rourke, affermava che fra 50 anni non ci si domanderà perché l’euro si è rotto, ma perché mai è stato creato. La sinistra deve stare attenta a non fornire alibi al prolungamento dell’agonia coltivando l’illusione di soluzioni che non sono in vista.