Con lo sguardo incontaminato, privo di qualsiasi riferimento culturale (potenzialmente condizionante) del vecchio continente, Irving Penn (Plainfield, New Jersey 1917-New York 2009) è la «quintessenza del tipo americano». Almeno secondo Alexander Liberman, che lo  ricordava indossare scarpe da ginnastica e mai la cravatta. Niente manierismi, quindi, né nella vita né attraverso l’obiettivo. Penn non fa che «fissare il momento», partendo sempre da un approccio pragmatico che punta, attraverso il rigore formale, all’immediatezza e alla semplicità. Questa è la sintesi della ricerca del grande fotografo a cui Palazzo Grassi, a Venezia, dedica la mostra Irving Penn. Resonance (visitabile fino al 31 dicembre prossimo), curata da Pierre Apraxine e Matthieu Humery.

Una scelta consapevole quella del giovane Irving che studia pittura a Philadelphia, la città dove la famiglia si trasferisce per il lavoro di orologiaio del padre e di infermiera della madre, e disegno pubblicitario con Alexey Brodovitch, art director di Harper’s Bazaar, sotto la cui ala protettrice troverà lavoro come grafico a New York.

Diversamente dal fratello minore Arthur, pluripremiato regista e produttore cinematografico, Irving nella sua lunga e fortunata carriera non sarà quasi mai tentato dalle «dannatamente caotiche» immagini in movimento: l’incontro con la macchina fotografica sarà più una sorta di inciampo. Dopo esser stato chiamato da Liberman (conosciuto attraverso Brodovitch) come suo assistente nel ruolo di graphic designer nella redazione di Vogue, firma la sua prima copertina fotografica (uno still life a colori con guanto-cinta-borsa) il 1° ottobre 1943. Da allora la fotografia lo accompagnerà per tutta la vita e con il suo lavoro consegnerà a Vogue quella sua impronta unica per oltre mezzo secolo.

Tuttavia, pur avendo un primato come il più prolifico fotografo della rivista di moda, Irving Penn non si è mai crogiolato nei cliché – suoi o altrui – trovando continui stimoli nella ricerca, sia stilistica che tecnica. È ciò che intende sottolineare anche la mostra veneziana con i suoi oltre centotrenta scatti provenienti dalla collezione di François Pinault. Si tratta prevalentemente di stampe al platino-palladio e ai sali d’argento, ma anche dye-transfer a colori (unico sistema che negli anni ’40-’60 riusciva ad ottenere dei colori stabili attraverso un sistema di tre negativi in bianco e nero esposti attraverso un filtro rosso, uno verde e uno blu) e diciassette internegativi che vengono esposti al pubblico per la prima volta.

La bellezza, il senso dell’effimero e della caducità, la miseria e la nobiltà, l’etereo e il carnale, vengono catturati dallo sguardo sempre attento (che però non giudica mai) del fotografo impegnato nel conferire uguale dignità a tutti i suoi soggetti, siano essi niños di Cuzco, mozziconi di sigarette, una famiglia hippie, l’elegantissima modella e musa svedese Lisa Fonssagrives (sua moglie dal 1950), nudi femminili acefali, teschi, fiori sciupati e magari una natura morta con pezzi di pane smangiucchiato, una fetta di anguria con i semi sparsi, dell’uva e un limone su cui troneggia un insetto alato.

A rendere più autentica quest’idea di visione democratica contribuisce certamente l’essenzialità (o meglio austerità) della scena in cui vengono ritratti i protagonisti: il fondale è una quinta neutra di carta, tela o muro.

È particolarmente nota la serie di «ritratti all’angolo», realizzati tra due pareti inclinate del suo studio newyorkese, che formavano un claustrofobico angolo acuto. «Così nessuno poteva scappare», sottolineava lo stesso Penn, mettendo alle strette i suoi modelli. Ci sono Truman Capote (1965), Alfred Hitchcock (1947), Marlene Dietrich (1948), Joe Louis (1948), Georgia O’Keeffee (1948), Barnett Newman (1966)…

Sono in pochi a chiudere gli occhi come Capote o a nascondere il volto lasciando intuire gli occhi attraverso due buchi su un foglio rettangolare e il naso come Saul Steinberg in Nose Mask (1966): quasi tutti gli altri restituiscono uno sguardo che è sornione, orgoglioso e qualche volta divertito.

Sguardi che ritroviamo anche nella serie dedicata ai mestieri, realizzata tra New York, Parigi e Londra nel 1950-51 che ricorda, in una chiave alleggerita dalle implicazioni socio-politiche, i ritratti di Auguste Sander.

Anche quando si sposta, Penn non si separa dalla sua visione onesta, come vediamo nei ritratti degli anni ’50 di Picasso e Colette: entrambi sprigionano una potente energia seduttiva. Di Colette, in Moments Preserved (1960) – uno dei numerosi libri di cui è autore – il fotografo ricorda che la scrittrice era ottantenne quando lui scattò quella foto nella sua abitazione a Parigi. Pur essendo permanentemente confinata nel suo letto, Colette aveva le unghie dei piedi curatissime e dipinte con lo smalto scarlatto.

Quanto al gusto esotico, Irving Penn ne subisce il fascino durante i viaggi di lavoro per Vogue, tra il 1964 e il ’71 quando si reca a Dahomey (1967), Camerun (1969), Nuova Guinea (1970) e Marocco (1971), in occasione dei quali porta con sé uno studio portatile appositamente costruito, in cui applica le sue solite regole compositive. Mani femminili dipinte di henné, guerrieri Okapa, «mud man» (gli uomini di fango), donne che mostrano la pelle nuda fitta di scarificazioni o velate completamente avvolte dai voile. «Le parole tra noi non erano necessarie», scriverà l’autore introducendo anche l’idea di un connubio fra una «perfetta bellezza fisica e una grande pace interiore».