Tutto comincia qualche anno fa, quando Daniele Incalcaterra riceva in eredità da suo padre una terra nel Chaco, in Paraguay. Lui è un regista, certo non pensa di cominciare a occuparsi del possedimento, e insieme alla compagna di vita e di cinema, Fausta Quattrini, decidono di donarla ai nativi. Ma arrivati in Paraguay il loro sogno un po’ romantico si dissolve brutalmente nella realtà del paese. Dove come in molti altri dell’America latina dominano pochi uomini potenti, con in mano i numeri dell’economia, e dunque anche il controllo dei governi e delle politiche. La terra di Daniele si trova dentro a quella di Tranquillo Favero, uno degli uomini più ricchi e influenti del Paraguay, il quale non ha nessuna intenzione di cedergli il passo. E meno che mai quando viene a sapere che l’inatteso vicino vorrebbe donare la terra agli indios facendone una «riserva» naturale e un osservatorio ecologico contro le devastazioni delle foreste: Arcadia.
La terra per Favero va utilizzata, questo nel suo vocabolario significa deforestazione massiccia, e coltura intensiva della soia transgenica – di cui l’Europa e la Cina sono i maggiori consumatori, da noi è vietata, ma come per altre cose risolviamo il problema acquistando altrove – e di vacche (destinate agli stessi mercati). Favero per questo progetta anche una linea aerea con cui trasportare le bistecche appena macellate sui piatti dei paesi ricchi.
Lui e Fausta però non si sono arresi, anzi, e lo scontro tra queste due parti – un gigante e due formichine – è diventato un film: El Impenetrable, che presentato alla Mostra del cinema di Venezia – sezione Orizzonti nel 2012 – ha fatto il giro del mondo, è uscito in sala in Francia, e finalmente arriva da noi grazie a #nuovocinemamilano, il progetto di distribuzione organizzato dal Network dei festival milanesi – stasera 20.30 Spazio Oberdan.
Il protagonista è Daniele Incalcaterra, eroe un po’ maldestro, buffo, che scopre le regole, o meglio le non-regole del paese un po’ alla volta, cercando di prendere a ogni nuova imboscata le sue misure. Come in un western trova i cattivi e i buoni, chi cede e chi resiste malgrado tutto, malgrado la corruzione, le connivenze, i privilegi, la sistematica violazione del diritto. E la sua battaglia interroga il cinema nel confronto con la realtà, un allenamento costante che ne forza i bordi e le certezze, obbligando lo sguardo a riposizionarsi a ogni nuova sfida. Si ride e ci si arrabbia, si fa il tifo e si rimane col fiato sospeso come nei film d’avventura. Il finale non lo svelo anche perché non c’è. All’epoca al governo c’era il presidente Lugo cacciato da un altro – Horacio Cartes – più compiacente con i proprietari terrieri. Arcadia per adesso è ancora lì. Ma quanto durerà?

Cominciamo dall’inizio. Che film avevate in mente quando siete partiti? E cosa è cambiato una volta sul posto?

Volevamo raccontare il Far West del Chaco, e la restituzione della mia terra agli Indios. Quando sono arrivato ho scoperto che non potevo nemmeno entrarci nella mia terra! La prima cosa che abbiamo cambiato è stata la mia presenza nel film. Ho capito che dovevo mettermi anche davanti alla macchina da presa. Presentarsi come proprietario terriero in Paraguay apre tutte le porte. Mi ha permesso di essere ricevuto in ambienti dove non sarei mai arrivato. In questo ruolo potevo anche filmare più facilmente, le persone che incontravo si riferivano al Proprietario e non provavano imbarazzo davanti all’obiettivo. Essere in scena garantiva un rapporto di fiducia, correvo i loro stessi rischi.

A questo punto come avete organizzato le riprese?

La struttura narrativa si doveva basare sull’improvvisazione. Abbiamo messo da parte tutto quanto scritto in precedenza, le riprese corrispondono ai problemi affrontati di volta in volta. Per esempio: dovevamo risolvere una questione col titolo di proprietà, o al ministero del catasto? Filmavamo quello. Tutto è in ordine cronologico.

E una volta al montaggio?

La prima cosa nel lavoro col montatore (Catherine Rascon, ndr), è dargli la possibilità di appropriarsi dei tuoi materiali di regista. C’è voluto molto tempo per trovare i ritmi giusti, per creare quei «buchi» che danno al pubblico la possibilità di essere attivo. É stato lungo anche il lavoro di postproduzione.

Da cosa arriva l’idea di restituire la terra ai nativi?

Abbiamo passato cinque anni insieme ai Mapuchi per il film di Fausta, La nación Mapuce, che non voleva fare un film su di loro ma con loro, rispettandone perciò i tempi e le cerimonie. Abbiamo dovuto guadagnarci la loro fiducia, sono molto diffidenti perché sanno che le migliori intenzioni spesso producono i peggiori risultati. Sperimentare questa convivenza con una cultura diversa, ci ha permesso di capire il conflitto che vivono col territorio. Ne hanno bisogno per esistere, però gli viene sottratto. Quando mi sono ritrovato questi cinquemila ettari in eredità donarglieli mi sembrava la sola cosa da fare.

I cambiamenti imposti dalla situazione al vostro progetto fanno di «El Impenetrable» anche una magnifca lezione su come misurarsi con la realtà trasformando gli imprevisti in cinema.

Ma rendersi disponibile a cambiare, e assumersi dei rischi, dovrebbe valere sempre nel documentario. Mi rendo conto però che non è così evidente. Quando incontriamo dei possibili produttori per il nuovo film, la mancanza di una «storia» crea molti problemi. Non capiscono come possiamo girare così. Oggi o si parla del passato, o si scelgono soggetti ben determinati. La scrittura legata all’improvvisazione non è contemplata.

Diventare un personaggio ti ha permesso di accedere a una dimensione narrativa.

Quella è venuta dopo, anche perché a un certo punto Fausta che stava in macchina è partita, era all’ottavo mese di gravidanza… Abbiamo pensato alla voce, che è la mia, e esprime il punto di vista della storia dando elementi di informazione e motivazioni. Avevo molta paura degli eccessi autoreferenziali. Poi mentre montavamo Catherine Rascon mi diceva: ’mi fai ridere’. E io: ’ bene, se ridi tu riderà anche il pubblico’. La storia è molto personale, e al tempo stesso è legata alla realtà della terra in quei luoghi.

Chi è Tranquillo Favero, il proprietario con cui ti confronti?

In Italia sarebbe un Ferruzzi (della Ferruzzi spa, ndr), uno che rende forte il sistema industriale con le tecnologie pesanti e la devastazione dell’habitat. I suoi possedimenti sono estesi quasi come la Svizzera. In Paraguay vengono distrutti duemila ettari di foresta al giorno per trasformare i terreni in pascolo. Usano delle erbe africane che crescono con poca acqua, e che sono molto resistenti. Non avrei mai immaginato quanta violenza c’è nel bosco appena sono andati via i bulldozer. L’ho vissuta e adesso so che è terrificante. Si sente la forza della natura, e la sua disperazione, l’odore fortissimo degli alberi che è come il sangue, gli insetti che impazziscono, gli animali che fuggono. In Europa il transegenico è proibito ma ne siamo i principali consumatori. Forse dovremmo riflettere di più sul ciclo completo dei nostri consumi, pensare che creano deserti, che causano la sparizione di popoli, di animali, che generano malattie, obesità.

E adesso?

La situazione è peggiorata rispetto a quando abbiamo girato, il cartello Arcadia è già sparito due volte. Il nuovo governo ha dato mano libera ai latifondisti per agire nel Chaco in favore dell’industria agricola. I piccoli proprietari sono spariti, i nativi vengono massacrati e così i campesinos La cosa più assurda è che adesso devono importare prodotti nazionali come il riso. Hanno smesso di coltivarlo in favore della soia transgenica perché rendeva meno soldi. In Paraguay ci sono sei milioni di abitanti e quindici milioni di vacche. Il decreto di Lugo che riconosceva Arcadia puà essere impugnato ogni momento dal nuovo presidente.

Ti sei sentito minacciato mentre giravi il film?

No, ma come dicono i miei amici di lì perché ho un passaporto italiano, e Fausta lo ha svizzero. Se fossi stato paraguagio non lo avrei mai potuto fare un film così. Ci tolleravano proprio perché siamo stranieri, ma oggi non è più lo stesso. Sanno che il nostro progetto è di trasformare insieme ai nativi la mia terra in un osservatorio ecologico e scientifico con cui contrastare la deforestazione. Temono che se ci riusciamo possa diventare un simbolo di resistenza.

Però dicevi che stai preparando un nuovo film, quasi un sequel di «El Impenetrable».

Penso che sia necessario, e non lo dico da regista ma da cittadino di questo pianeta. Ho un figlio piccolo, e mi preoccupo di cosa lasceremo alle generazioni dopo di noi. Non possiamo semplicemente distogliere lo sguardo, e anche se un film è come un granellino di sabbia, dobbiamo farlo. È un atto di coscienza.