C’è chi adora le note: sono caparbie e confortanti; permettono di perdere e riallacciare i fili di un discorso gregario, scegliendo con apparente sobrietà suggeritori e vittime. Hanno qualcosa di carnevalesco e vigliacco nella loro compunzione: corpi minori ai piedi dei testi da usare con gusto manipolatorio, senza rischiare solitudini e disorientamenti e senza la fatica dell’argomentazione. Proprio in un tripudio di note a più voci si risolve Il progetto Kraus (traduzione di Claudio Groff e di Silvia Pareschi, Einaudi, pp. 235, euro 19.50) un libro di Jonathan Franzen (così recita con piglio autoriale la copertina) che trasforma le note in un percorso accidentato di pensieri sparsi e indicazioni ‘filologiche’ in cui trascinare, insieme al disorientato lettore, autorevoli compagni di strada, il germanista Paul Reitter e lo scrittore Daniel Kehlmann.

A ispirare l’ipertrofia diseguale dei commenti ci sono tre testi di Karl Kraus, una dura prova da traduttore per Franzen alle prese con asprezze linguistiche e lontananze culturali che poco possiamo valutare nell’edizione italiana (ottima la versione dal tedesco di Claudio Groff) anche perché viziati da edizioni impeccabili e da una vocazione tutta italiana a traffici culturali con la Vienna di fine secolo. Franzen sceglie per questa sua incursione un capolavoro di ossessività rancorosa e geniale (che giunge gradito a oltre venti anni di distanza dalla prima pubblicazione italiana di Heine e le conseguenze apparso a Genova per i caratteri di Graphos nel 1993) Heine und die Folgen con la postfazione di Kraus e il più pacato e elogiativo testo titolato Nestroy e la posterità.

Attorno a questi brevi saggi lo scrittore americano allestisce un esercizio di annegamento psichedelico per un uomo difficile che voleva propagare «tradimento, terremoto, veleno e incendio» – come scrive Walter Benjamin nel saggio che dedica a Kraus – e che usa la lingua come fosse la tromba dell’apocalisse. Le note avvolgono i testi, li stritolano, raspodiche, autobiografiche, associative o puntigliosamente informative gettandoli nella contemporaneità canagliesca delle mode e dei luoghi comuni. In cambio, Franzen offre a Kraus una nuova vita costruendogli attorno una trama di sintonie e facendosi erede dello scomodo interprete del ‘mondo di ieri’. Racconta – scrive ricordando il suo lungo soggiorno berlinese – «del giovane arrabbiato che ero quando lo lessi per la prima volta» e quindi suggerisce di regalare al mondo di oggi le critiche e i rigori krausiani: in questo modo, ciò che Franzen ci dona sono in realtà squarci della sua visione del mondo, del suo rapporto con la scrittura, con l’America e in genere con i problemi della modernità consegnandosi anche lui, come Kraus ma senza scandalo, all’aforisma, alla frase incisiva, allo sdegno per le iniquità del tempo.

Un paio di esempi. Ad apertura di libro (dopo l’affermazione un po’ temeraria secondo la quale Heine sarebbe stato, insieme a Goethe, la figura letteraria più importante dell’Ottocento tedesco) scrive: «La fuga di Heine» è «simile al passaggio di Dylan alla chitarra elettrica durante il Newport Folk Festival del 1965. Proprio come Dylan, Heine era un ebreo convertito al cristianesimo» e aggiunge, anche qui con qualche temerarietà, «Per Heine si trattò di una precoce e umiliante necessità di carriera».

Resisterò alla forte tentazione di commentare i commenti. Vado avanti: «Questo mi fa pensare a una versione più contemporanea della dicotomia krausiana – scrive Franzen -: Mac contro pc. Alla base dei prodotti Apple non c’è forse l’idea che basta possederli per essere cool?». Ancora: «La Vienna del 1910 era dunque un caso speciale. Eppure si potrebbe sostenere la stessa cosa per gli Stati Uniti del 2013: un altro impero indebolito che si illude della propria eccezionalità mentre scivola in qualche sorta di apocalisse fiscale o epidemiologica, climatico-ambientale o termonucleare».

Questa operazione, che piaccia o no, ha comunque un esito sorprendente. Tartassata nel gioco di specchi e rimandi, la suggestione di Kraus, apocalittica e giudiziale (come del resto ogni apocalisse che si rispetti), risucchiata nelle nefandezze della vita civile e sempre in lotta con la sonnolenza appagante del nichilismo, esercita una seduzione minore ma non per questo meno pervasiva: l’attualizzazione di Franzen fatta di belle idee e di luoghi comuni, con tratti autobiografici, gettati qua e là in una quotidianità globale di buoni sentimenti – induce a leggere Kraus come fosse un modello da tribuna politica, esempio per squallidi politicanti o apocalittici di mestiere.

Se Kraus non meritava l’oblio augurato da Benjamin, di certo meritava un altro progetto. Forse bastava quello consumato negli anni Ottanta da un ebreo, viennese di adozione e di cattivo carattere, Elias Canetti. In Il frutto del fuoco racconta di un incontro con il suo corteggio di emozioni sgangherate, sogni palingenetici, brividi linguistici, amori letterari. E ci fa sapere che nel suo orizzonte di giovanotto sradicato tra i confini e le lingue trova provvisoriamente in Kraus una guida di pensiero ed elitarismo letterari. Con lui, a condividere la fascinazione, non ci sono compagni di università sbiaditi dalla lontananza e dal disinteresse come per Franzen e neppure tesine da preparare per accumulare punti e punteggi, c’è Veza Calderon e la sua inguaribile autonomia. E a lui Veza mostra Situazioni francesi del vituperato Heine e azzarda una critica allo sdegnato maestro. «Era uno dei libri più divertenti e intelligenti che lei conoscesse» gli dice con amore del rischio e aggiunge: «Lui non si interessa ai romanzi. E neppure ai quadri. Non si interessa a nulla che possa mitigare la sua collera. È una cosa magnifica e inimitabile. La collera dev’essere dentro di noi, non si può prenderla a prestito da nessuno». Altrimenti si rischia di guadagnare il biglietto di ingresso, non nella buona società, come il povero Heine con il battesimo, ma nelle foto dei safari esotici da rigirare tra le mani (o tra gli schermi) con sociale eccitazione.