Jovanotti, alias Lorenzo Cherubini, non canta gratis, ma dice sì al lavoro gratis degli altri «se serve a fare un’esperienza». L’assioma è stato pronunciato in un aula gremita di studenti al Polo delle scienze sociali dell’università di Firenze. Le cronache e i video riportano la sua risposta alla domanda di una studentessa su come si fa a «lavorare nella cultura» in Italia.

«Ultimamente – ha detto Lorenzo – ho partecipato a diversi festival negli Stati Uniti e vedevo tantissimi ragazzi che lavoravano. Ho chiesto: scusate, ma questi chi li paga? Questa è un’industria, ci sono gli sponsor. Mi hanno risposto: sono volontari, lavorano gratis, ma si portano a casa un’esperienza, stanno dentro la musica. Quel lavoro non è gratis, hanno costruito qualcosa dentro di sé. Così mi sono ricordato che quanto ero ragazzo anche io lavoravo gratis alle sagre e mi divertivo come un pazzo. Imparavo ad essere gentile con le persone, se mi avessero detto non lo fare, vai in colonia, sarebbe stato peggio. In estate stavo tre mesi a Cortona a facevo il cameriere. Avevo tredici-quattordici anni. È quel volontariato lì che era una festa. Lavoravo nella cultura perché facevo il cameriere nella sagra della ranocchia».

Il cantante che «pensa positivo» si è dunque esibito in festival che sfruttano gratis il lavoro minorile e ha legittimato tale sfruttamento con la sua presenza. È tuttavia improbabile che quei ragazzi che gli hanno servito un caffé, o assistevano un rigger che montava una luce sul palco, fossero minorenni. Così come è improbabile paragonare il loro volontariato a quello di adolescente che si improvvisa cameriere in una sagra di paese. Chi lavora nei concerti fa un lavoro. E di questo può anche morire. Com’è accaduto a Francesco Pinna, ragazzo di Trieste, che è morto sotto l’impacatura di un palco di Jovanotti nel 2011.

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La storia di Francesco Pinna, ragazzo
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Jovanotti mostra di ignorare la differenza tra un lavoretto estivo in una sagra di paese e lo sfruttamento delle persone adulte, con un diploma o una laurea, e anche una passione per la musica, perché no. Consapevole, o meno, le sue affermazioni spiegano la realtà con la stessa ideologia che ha istituito il lavoro gratuito all’Expo, quello sancito dall’accordo sindacale con Cgil Cisl e Uil il 23 luglio 2013. Così come un evento che ha introiti in milioni di euro come l’Expo chiede a più di 10 mila ragazzi di lavorare gratis, anche le star prodotte dalle corporation della musica considerano «normale» il volontariato per i propri fini commerciali. Per questi ragazzi l’unica remunerazione sembra essere quella di raccogliere la polvere di stelle che le ammanta.

Quella di Jovanotti è una visione precisa dell’economia dello spettacolo. Al suo pubblico, fatto da ragazzi che lavorano anche gratis, dice che è «fisiologico» farsi sfruttare con uno stage gratuito o con il lavoro nero. Questo è il pegno da pagare per chi ha l’ambizione di fare «cultura», un’attività considerata antitetica all’idea di lavoro e, soprattutto, di reddito e di diritti.

Rovesciamo il ragionamento, partendo dall’unica cosa che conta: i soldi. Jovanotti chiede a chi vive ad Ancona di pagargli 80 euro e 50 centesimi per un posto in tribuna allo stadio del Conero. Per chi vuole vedere il suo concerto a Milano, 86 euro e 25 centesimi per un posto nel primo anello numerato di San Siro e 34,50 euro per il prato. Un posto all’Olimpico per sentire la famosa rima con Che Guevara e Madre Teresa costa 86,25 euro e 49 euro per il prato (record). Per un’intera generazione del suo pubblico lo sfruttamento è doppio: dietro il palco a montare gratis il concerto e poi per andarlo ad ascoltare, pagando. Ciò che inquieta non è tanto il bimbominkismo di Jovanotti, ma l’applauso per la battuta sui camerieri che fanno cultura. Per essere conseguente con la sua teoria del volontariato, il tour estivo di Jovanotti dovrebbe essere gratis.

In fondo, nella fiera del dono che è diventato il mercato del lavoro, perché pagare per essere felici?

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