«Volevo esaminare le idee, i valori e le strutture che avevo ereditato. E scuoterli. Volevo capire non solo cosa avrebbe aiutato me, piuttosto cosa avrebbe potuto aiutare tutti». Attivista e scrittrice, di Jessa Crispin ha fatto discutere il suo provocatorio pamphlet tradotto nel 2018 per Sur dal titolo Perché non sono femminista. Nata nel 1978 a Lincoln Center, in Kansas, Crispin ha fondato le riviste letterarie online Bookslut e Spolia e scrive per i maggiori quotidiani statunitensi. Quelle eredità che ora intenderebbe scrollarsi di dosso, dopo averle scosse, le consegna al suo ultimo volume dal titolo I miei tre papà. Come liberarsi dai fantasmi del patriarcato (Sur, pp. 260, euro 18.50, traduzione di Giuliana Lupi) di cui discuterà al Salone del libro di Torino venerdì 10 maggio (al Lingotto in Sala bianca, Piazzale Oval alle 13.45 con Sara Marzullo; alla Libreria del Golem di via Gioacchino Rossini alle 21 con Gabriella Dal Lago). Ibrido letterario, il libro di Crispin è il resoconto di un immaginario preciso e situato.

Perché e quando ha deciso di scrivere «I miei tre papà»?
C’è stato un momento, durante la diffusione del femminismo, in cui tutti continuavano a dire di voler «bruciare il patriarcato e costruire qualcosa di migliore». Continuavo ad aspettare che avessero qualche idea su come sarebbe stato o su come avrebbe funzionato, ma niente. Perciò mi ha molto turbato questa domanda: cosa ci sarà dopo il patriarcato e quanto sia difficile immaginare come potrebbe essere. Era una domanda particolarmente difficile a cui rispondere perché il femminismo era così concentrato su aspetti individuali, su ciò che lei vuole, su come lei vuole vivere. Posso testimoniare, in quanto donna che ha vissuto da sola per decenni senza il sostegno della famiglia o delle istituzioni, quanto ciò sia estenuante. Questo è stato lo stimolo.

Il papà numero uno è John Pianalto, un «padre di famiglia». E un femminicida. La costruzione proprietaria della famiglia influisce sulla violenza maschile contro le donne.
Le donne vengono uccise dai loro mariti così frequentemente che c’è un intero genere di true crime dedicato. L’idea dell’uomo come capofamiglia e l’idea della donna come oggetto di proprietà dell’uomo in quella famiglia significa che egli può usare o disporre di quella donna nel modo che preferisce, come se fosse un tavolino rotto dell’Ikea.
La violenza contro le donne all’interno delle mura domestiche è stato qualcosa di molto normale per me. Sono in questo mondo solo perché due donne, mia madre e la mia bisnonna, sono entrambe sopravvissute ad attentati alla loro vita da parte di uomini della loro famiglia. Nel caso di mia nonna si trattava di suo marito e nel caso di mia madre di suo fratello. Quindi, è stato qualcosa che ho dovuto disimparare da sola, l’idea che questo sia accettabile e in qualche modo inevitabile.

John Brown è un eroe, anche se piuttosto controverso. Perché ha fatto riferimento proprio al «cittadino» per raccontare le contraddizioni del suo papà numero due?
Oggi gli americani hanno una visione molto romantica della violenza politica. Credo perché non abbiamo una rivoluzione o una guerra civile a memoria umana, quindi possiamo fantasticare su quanto sarebbe glorioso se tutti i nostri nemici politici morissero. Gli Stati Uniti hanno destabilizzato nazioni in tutto il mondo per un secolo, quindi ora si annoiano e vagheggiano di destabilizzare la propria.
Volevo quindi esaminare tale fantasia della violenza politica, ovvero che l’unico modo per guadagnarsi la gloria è versare sangue. Ovviamente non si tratta di una visione solo americana: l’eroe omerico che cerca di sopravvivere alla morte dimostrandosi all’altezza della battaglia è antico. Ma come facciamo a continuare a perpetuare tutto questo? E a quale costo?

Il terzo papà è invece Martin Lutero. Lei affronta il problema della religione in modo molto articolato, eppure sostiene che gli atei che ha incontrato in Kansas erano irritanti quanto gli evangelici.
Ho trovato gli atei altrettanto dogmatici e ideologici di chiunque altro. Questo non risolve il problema del rifiuto di Dio, vero? Si rimane ancora con le strutture che il dogma ha costruito nel cervello. E in realtà, se stai dicendo che la colpa della guerra, della povertà e della sofferenza è del credo religioso – cosa che hanno fatto molti atei – allora non stai pensando in modo chiaro.
Molti dei cosiddetti «nuovi atei», che per un certo periodo sono stati così importanti – Christopher Hitchens, Richard Dawkins, eccetera – in realtà si stavano solo abbandonando al razzismo guerrafondaio, non ci stavano aiutando ad affrontare la secolarizzazione della nostra cultura. Perché è un grande cambiamento, passare da un fondamento religioso a uno più ambiguo e secolare. E credo che i nostri intellettuali ci abbiano deluso. Non erano disposti a guardare a ciò che la religione effettivamente fornisce, a ciò che la fede e i valori cristiani fanno per una persona, e a pensare a come sostituirli.

I suoi tre «padri» sono uomini di mezza età, bianchi ed eterosessuali. Soffrono della «costipazione emotiva» tipica del Midwest, ma rappresentano una mascolinità occidentale che si trova in altre parti del mondo.
I miei tre papà è un libro molto personale, nel senso che ho dovuto guardare alla mia specifica eredità patriarcale. Chi sono gli uomini che mi hanno preceduto e che mi hanno lasciato questi fardelli e questi doni? Ma è anche una storia universale, perché a tutti noi sono state date strutture in cui viviamo la nostra vita, anche a quelli di noi che hanno scelto di rifiutarle consapevolmente. E direi che la cultura del Kansas non è spuntata dal nulla: è una terra colonizzata soprattutto da nordeuropei (tedeschi, svedesi, olandesi, scozzesi) e anche se rifiutavano o si allontanavano dalle loro culture per iniziare qualcosa di nuovo, portavano con sé anche i pesi e i doni dei loro padri. La fuga non è mai veramente possibile in una sola vita. Ci vogliono generazioni per allontanarsi da idee e tradizioni sbagliate.

L’attraversamento delle origini è un’esplorazione di sé, in cui personale e politico coincidono. Dei suoi desideri, della sua sessualità, della sua idea di amore e relazione, legata quest’ultima anche alla formazione della sua spiritualità. Un altro titolo di questo suo ultimo libro avrebbe potuto essere «Come sono diventata femminista»?
Certo. Come sono diventata femminista è essenzialmente la storia di come sono diventata una persona. Come ho iniziato a pensare a me stessa in quanto persona che meritava la vita, il piacere, l’autonomia e la libertà. Poiché il luogo da cui provenivo era così conservatore, talmente tradizionale e ostile alla deviazione da questi ruoli a cui ti preparano, avevo bisogno di un po’ di supporto intellettuale per convincermi che era giusto allontanarsi dal percorso.

Anche nel suo «The Dead Ladies Project» (2015) lei inserisce alcuni riferimenti letterari nella sua ricerca di un’esistenza da reinventare.
Dead Ladies Project è stato originariamente concepito come un modo per riflettere sul mio rapporto con la casa, per me un concetto difficile a causa del rapporto complicato con la mia famiglia e della violenza subita dalle donne intorno a me. In origine il mio progetto era di trovare una nuova casa, qualcosa di più adatto e solidale. Ma è stato un errore. Alla fine, attraverso la stesura di quel libro, è diventato chiaro che non esiste una cura per il mio stato di disagio. Che una volta persa la connessione con l’idea di casa, qualsiasi tentativo di ricostruirla è solo un modo per ingannare se stessi.
Invece ho finito per scrivere di questi scrittori, artisti, intellettuali che avevano pensato a questo processo anni prima che io nascessi. Può far male all’ego quando ci si rende conto che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Non c’è un’idea veramente nuova e geniale che possa venire a chiunque, perché nessuno vive una vita completamente originale. Ma è anche un sollievo che ci siano altri ad aver pensato questo problema dell’essere inquieti, scacciati, ritenuti inaccettabili.

La sua biblioteca? Ha letture ricorrenti?
In questo momento mi trovo in un albergo a Budapest, quindi la mia biblioteca è una piccola pila di libri che ho pensato di leggere in viaggio: Roberto Calasso, che adoro. E Catherine Clement, tra le mie preferite. La sua mente si curva nel modo più piacevole. La mia biblioteca di casa ha invece un aspetto pessimo in questo momento, perché ho adottato un cane nervoso. Forse ha qualcosa contro Kandinsky, perché ha distrutto completamente quel libro. O forse lo ama così tanto da volerlo divorare e diventare un tutt’uno con lui.