Nato nel Massachusetts nel 1922, morto a settant’anni nella città di Los Angeles, Freddy Otash è stato uno degli investigatori privati più celebri della storia degli Stati Uniti. «Cerbero» di Hollywood, ha collaborato, negli anni Cinquanta, con la rivista scandalistica «Confidential», fornendo informazioni compromettenti e di prima mano su star del cinema come Frank Sinatra, Marilyn Monroe, Lana Turner e Bette Davis; ha scritto due libri di memorie, Investigation Hollywood e Marilyn, Kennedy and Me e ha recitato in due film non memorabili.

Sembra quasi scontato che un personaggio del genere, feroce demistificatore della fabbrica dei sogni e insieme torbido esploratore di un mondo nel quale il confine tra bene e male semplicemente non esiste, dovesse trovare spazio nell’universo narrativo che James Ellroy ha costruito nell’arco di trentacinque anni: dalla memorabile quadrilogia di Los Angeles (Dalia nera, Il grande nulla, L.A. Confidential e White Jazz) alla trilogia Underworld U.S.A., inaugurata da quello che rimane il suo romanzo forse più celebre, American Tabloid.

Se non è confermato – sebbene siano in molti a sostenerlo – che Otash avrebbe ispirato il personaggio di Jake Gittes, il detective privato protagonista di Chinatown, capolavoro di Roman Polanski, è invece indubbio che Ellroy ne abbia narrato le imprese – o i misfatti – in L.A. Confidential, dove il suo ruolo di «castigamatti» viene svolto dal sergente Jack Vincennes (Kevin Spacey nella trasposizione cinematografica), e la rivista «Confidential» – cui il titolo del libro rende omaggio – viene ribattezzata «Hush Hush».

Per la vera entrata in scena di Otash è stato però necessario attendere più di vent’anni, segnati dal lento perfezionamento di quello che si può dire il «metodo Ellroy»: un progressivo superamento del genere noir, che aveva segnato i suoi esordi letterari, per approdare a quella che l’autore stesso ha definito la «Storia segreta».

«Quello che racconto», ha dichiarato Ellroy in un’intervista, «è fondamentalmente l’incubo privato delle politiche pubbliche. Sappiamo tutti che per ogni grande avvenimento pubblico violento, sismico, devono esserci piccoli tirapiedi che fanno il loro sporco lavoro da formiche. Sono loro i miei uomini».

Già in American Tabloid, per realizzare questo metodo, Ellroy aveva lavorato all’intersezione tra privato e pubblico, tra fiction e realtà, senza creare distinzione alcuna tra personalità pubbliche e personaggi di invenzione e portando sulla scena tutti i protagonisti di una stagione tra le più tragiche del Novecento americano: dai fratelli Kennedy a Jimmy Hoffa; da J. Edgar Hoover a Howard Hughes. La sensibilità noir continuava a fornire l’atmosfera e il tono alle vicende storiche narrate, incarnandosi in protagonisti quasi sempre tormentati da traumi o da colpe non espiate che si traducono in un’ossessione, in un corpo a corpo con il male nel quale ci si mette in gioco rinunciando a tutto, in primo luogo all’innocenza.

Nella trilogia Underworld U.S.A. Otash era apparso come figura minore, ed è stato solo nel romanzo Panico, pubblicato nel 2021, che ne è diventato l’autentico protagonista: bloccato in purgatorio, cerca di guadagnarsi l’accesso al Paradiso dettando le sue personalissime «memorie dall’oltretomba» a James Ellroy in persona: Otash lo chiama «una testa di cazzo», che «si è appropriato della mia immagine per un personaggio del suo romanzo super pubblicizzato L.A. Confidential». Come appare evidente dal tono di queste brevi citazioni, il registro adottato da Ellroy è al tempo stesso confessionale e irresistibilmente comico. Nel ricostruire le peggiori malefatte della Hollywood anni Cinquanta, Freddy, calato nel ruolo di io narrante, adotta lo stesso linguaggio delle riviste scandalistiche cui cedeva i suoi scoop, rivendicandone la necessità – anche – etica: «Io penso e scrivo in allitterazioni algoritmiche. La lingua deve sferzare con mano pesante. Liberare mentre offende».

Frasi brevi e allitterative, ritmo frenetico e feroce: sono gli elementi stilistici che, da Panico, si riversano in modo quasi naturale anche in Gli incantatori, l’ultima fatica di Ellroy (Einaudi Stile libero, pp. 620, € 22,00, traduzione di Alfredo Colitto). Siamo nel 1962 e Otash, di nuovo protagonista, viene incaricato da Jimmy Hoffa di raccogliere informazioni «sporche» su Marilyn Monroe e sulla sua relazione sessuale con il presidente Kennedy, e forse anche con il fratello Bobby. Nello stesso tempo, Freddy è impegnato nelle indagini sul rapimento di Gwen Perloff, un’attrice della Twentieth-Century Fox, amante del produttore Darryl F. Zanuck: indagini nel corso delle quali uccide in modo barbaro uno dei sospetti sequestratori.

La morte di Marilyn e il ritrovamento di Gwen sembrerebbero segnare un punto di arresto, e invece è vero esattamente il contrario: Otash passa al soldo del capo della polizia di Los Angeles, Bill Parker, il quale, agendo per conto dei fratelli Kennedy, gli chiede di proseguire nelle indagini sulla diva per costruirne un ritratto diffamatorio, che distolga l’attenzione pubblica dai legami tra Marilyn e la famiglia presidenziale; scopre che il sequestro di Gwen è una montatura, architettata dalla stessa donna con l’aiuto di una serie di complici, tra i quali forse la stessa Marilyn, che ha conosciuto Gwen in orfanotrofio. Ben presto, le indagini puntano verso una serie di eventi tragici che appartengono al passato: la scomparsa di Mitzi, sorella minore di Gwen, probabilmente uccisa da un pedofilo, e un giro di prostituzione e mazzi di carte pornografiche nel quale Gwen e Marilyn erano coinvolte alla fine degli anni Quaranta.

Negli Stati Uniti, il romanzo è stato accolto in modo sostanzialmente positivo, ma non senza alcune perplessità, legate soprattutto al modo in cui viene rappresentato il personaggio di Marilyn: sempre leggermente fuori fuoco, con un’apparente assenza di calore e di partecipazione empatica. In realtà Marilyn, come i fratelli Kennedy e gli altri personaggi pubblici che affollano questo e tanti altri romanzi di Ellroy, non è molto più che uno «snodo di trama». Il meglio di sé, come sempre, l’autore lo dà nei personaggi che, reali o d’invenzione, si collocano nelle pieghe della storia: i piccoli tirapiedi, le donne che si compromettono quotidianamente, eppure, come Gwen, mantengono una loro strana forma di integrità.

E mentre in Panico Freddy Otash era un rodomonte linguacciuto e carico di sarcasmo, negli Incantatori assume una statura pressoché tragica: se dice di sé, quasi con orgoglio, «Ho imparato a sviluppare la memoria eidetica e non dimentico mai quello che osservo. Fisso le cose e affino il mio metodo, che mi aiuta a riscrivere i circuiti cerebrali e spesso anche a frenare la voglia di alcol e di droga», è altrettanto vero, e forse inevitabile, che questa capacità di trasformarsi in una «macchina fotografica umana» è la sua più grande condanna: perché lo destina a un corpo a corpo con il male dal quale non potrà che emergere, in una qualche misura, solo e sconfitto. Come ogni antieroe ellroyano che si rispetti.