Massimo Barbiero (percussionista cinquantunenne) e Piero Delle Monache (sax tenorista trentaduenne) ci parlano di progetti e tour. Diverse le biografie, al di là di una generazione che li separa. Barbiero ha studiato batteria, percussioni, vibrafono e marimba; nel 1984 ha fondato Enten Eller, gruppo di jazz contemporaneo indirizzato verso la ricerca timbrico-ritmica. Altre formazioni che vedono il batterista in prima linea il gruppo di sole percussioni Odwalla, il Silence Quartet, l’ensemble Water Dreams e il quartetto Marmaduke. Delle Monache – due album al suo attivo, collaborazioni con Flavio Boltro e Francesco Bearzatti – si è formato tra Bologna, Boston, Siena e Bruxelles; è laureato in Scienze Politiche con una tesi sulle prospettive di sviluppo del mercato discografico jazzistico italiano. Per entrambi l’Africa e la musica africana rappresentano un «passaggio». Nel caso di Barbiero e del gruppo Odwalla si tratta di una radice viva che sostanzia un’estetica basata su «danza, percussione e canto» nonché sulla collaborazione con artisti africani. Per Delle Monache il viaggio in Africa è stato fonte di ispirazione per un nuovo album, grazie anche all’incontro con artisti di varie nazioni africane. L’idea è stata quella di mettere a confronto due esperienze: quella di Barbiero, che nel tempo è diventata «inclusiva» rispetto a musicisti e danzatori provenienti dal «black continent»; quella di Delle Monache che ha «esportato» la sua musica nella Madre Africa a contatto con un pubblico africano selezionato e particolare come quello che ruota attorno agli Istituti italiani di cultura. Ai due musicisti la parola.

La visibilità di Piero Delle Monache inizia nel 2010 con la pubblicazione del primo album, Welcome (Altotenore), accolto con interesse dai media specialistici. L’anno successivo il tenorista riceve dalla regione Abruzzo il premio «Clessidra in Musica» e nel 2012 è l’etichetta Parco della Musica a produrre il secondo e più personale cd, Thunupa. Attivo come organizzatore di rassegne, leader di un quartetto con il pianista Claudio Filippini, Piero Delle Monache è maturato anche attraverso le collaborazioni con il trombettista Flavio Boltro, il tenorista Francesco Bearzatti e svariati altri jazzisti: lo testimonia la sua presenza, a partire dal 2002, in album di Maurizio Rolli & A.M.P. Big Band, Paolo Damiani & Alea Ensemble, del fisarmonicista Renzo Ruggieri e del gruppo guidato da Laura Lala e Sade Mangiaricina.

Al rientro dal «Thunupa African Tour» sei andato in sala di registrazione con il quartetto che ti ha seguito nel viaggio (Giovanni Ceccarelli, piano; Tito Mangialajo, contrabbasso; Alessandro Marzi, batteria. L’album uscirà per la Parco della Musica Records, con arrangiamenti di Mauro Campobasso, ndr). Quanto ha pesato l’esperienza africana nella musica incisa?

Moltissimo! Quella del Thunupa African Tour è stata un’esperienza stupenda da tutti i punti di vista: ho avuto il privilegio di condividere la mia musica con un gruppo straordinario e i giorni in studio hanno risentito positivamente del clima che si era creato tra noi. Concerto dopo concerto abbiamo sviluppato brani nuovi, tra cui Nairobi, dedicato a questa città affascinante quanto supertrafficata, e acquistato alcuni strumenti locali, tra cui una mbira. Che Alessandro, il batterista della band, ha portato con sé in sala di registrazione suonandola con stupefacente maestria…

In festival, teatri e istituti culturali di sette città africane hai presentato la tua musica, in un tour organizzato dal ministero degli affari esteri in collaborazione con la fondazione Musica per Roma. Potresti «fotografare» ciascuna delle sette tappe?

Addis Abeba, in Etiopia, è la realtà forse più lontana dal nostro «concetto» di città. E partire da lì è stato molto emozionante. L’Istituto italiano di cultura è molto attivo e il suo direttore, Alessandro Ruggera, è un grande appassionato di jazz. Libreville, in Gabon, non ha un suo Istituto italiano di cultura, ma l’ambasciata collabora con quello francese, che dispone di una bellissima sala, molto grande e con un’ottima acustica. La città è molto accogliente e colorata, e il cibo locale buonissimo. Nairobi, in Kenya, è vitale e trafficata. Siamo arrivati poche settimane dopo un terribile attentato in un centro commerciale, la gente probabilmente aveva voglia di lasciarsi alle spalle quel brutto momento e ci ha accolti con un calore incredibile. A Maputo, in Mozambico, ci siamo esibiti in un piccolo club pieno zeppo di gente, il nostro concerto è iniziato a mezzanotte, dopo quello di una band locale. È stato il nostro live più ritmico, l’energia era altissima. E alle quattro del mattino del giorno dopo ci sono venuti a prendere per volare a Johannesburg! Questa città sudfricana è ancora divisa in due: c’è una zona molto ricca, abitata per lo più da bianchi, e una molto povera e pericolosa. Di certo la realtà è molto più complessa di come la sto raccontando io, ma la prima impressione è questa. Ci siamo esibiti in un teatro con gli standard professionali che avremmo trovato a Londra o a Roma! A Johannesurg abbiamo visitato il Down Town Studio, dove sono stati registrati alcuni dischi pop importantissimi (uno su tutti Graceland di Paul Simon) e dove sono passati tutti i grandi della musica sudafricana. Cape Town è la più «europea» delle città che abbiamo visitato. Ma facendo qualche chilometro verso sud si arriva a una spiaggia abitata dai pinguini. L’Antartide non è così lontana! C’è una scuola di jazz molto importante, e il suo direttore, Mike Rossi, è un ottimo sassofonista. Harare, in Zimbabwe, è bellissima. Serena, intensa, ho avuto la sensazione di essere tornato al centro del mondo, non vedo l’ora di passarci nuovamente qualche giorno. Il nostro concerto era il quarto in programma di una giornata nella quale si sarebbero incontrati artisti italiani e locali, ed è sfociato in una lunga jam… non poteva esserci conclusione migliore per il tour!

C’è stata occasione di suonare con musicisti locali e che tipo di pubblico hai avuto?

Il pubblico è stato sempre molto variegato (da tutti i punti di vista: etnico, sociale, età) e calorosissimo. A Maputo, Cape Town e Harare i nostri set sono stati introdotti da gruppi locali, e sono stato felicissimo di invitare alcuni musicisti che si erano appena esibiti a tornare sul palco con noi. A uno di loro, Othnell Mangoma Mojo, un bravissimo percussionista dello Zimbabwe, ho chiesto di sovraincidere i suoi strumenti su due tracce del mio album nuovo.

Da italiano hai portato un linguaggio internazionale come il jazz in Africa. Molti africani cercano in Italia occasioni di lavoro e sopravvivenza. Pensi che sia possibile la nascita e lo sviluppo di una musica «meticcia» nel nostro paese?

Certo! E mi pare di capire che molti musicisti si stiano già muovendo in questa direzione.

Raccontaci in breve la tua recente esperienza parigina. Cosa si può mutuare dalla Francia per dare più slancio alla cultura e più spazio ai giovani?

In Francia come in Belgio, dove ho vissuto, e come credo capiti nel resto d’Europa, la differenza principale sta nella curiosità della gente e nella voglia di godere di esperienze culturali. Ascoltare un concerto o andare al cinema è divertente e fa bene alla salute. Basterebbe che anche in Italia si tornasse a questo tipo di mentalità. Tutto il resto (scelte politiche più attente a questi aspetti ecc.) verrebbe da sé.