«Le sanzioni basteranno?», si chiede l’Istituto per gli studi di politica internazionale nell’ultimo rapporto DataLab, mentre l’esercito russo entra a Kiev. La risposta è complessa: «Funzionano poco, solo se sono forti e imposte all’unisono da molti Paesi del mondo, e se chi le subisce non è determinato a resistere», spiega l’Ispi che, attingendo a dati storici, dalla Prima guerra mondiale ad oggi, elabora prospettive sull’efficacia delle sanzioni economiche. «Solo un terzo delle volte hanno raggiunto il loro obiettivo», e ancora meno (il 25%) «se lo scopo era dissuadere o far cessare azioni militari», anche perché gli effetti non sono immediati. La probabilità del successo crolla poi all’11% se, fanno notare gli studiosi dell’Ispi, «il Paese sanzionato non è democratico (come la Russia)».

Dunque devono essere soprattutto «forti e globali». Senza dubbio dovrebbero essere più pesanti di quelle imposte alla Russia nel 2014 (primo evento della crisi Mosca-Kiev, con l’annessione della Crimea), visto come «si è ora evoluta la situazione in Ucraina», anche se «si stima che nel 2017 il Pil russo fosse del 2,3% più piccolo rispetto a quanto avrebbe potuto essere» senza quelle sanzioni. Ma, per quanto le misure attuali possano essere più consistenti, neppure questa volta sono globali, visto che molti Paesi hanno scelto di non opporsi a Putin, a cominciare da Cina, India e Brasile. L’Ispi analizza nel dettaglio le misure annunciate dagli alleati occidentali mettendo subito in evidenza che ne mancano due fondamentali: l’esclusione della Russia dal sistema Swift (bonifici internazionali), che colpirebbe sia Mosca sia i Paesi europei rendendo molto più difficili le transazioni finanziarie, e le «sanzioni Ue nel settore energetico che non siano meramente simboliche».

Eppure, diversamente da quelle del 2014 che hanno arrecato danni contenuti agli alleati Nato, le ammende previste oggi contro il governo Putin rischiano di «aprire fratture» sul fronte che ora appare compatto contro l’invasione russa, a causa del forte impatto che avrebbero sull’economia di alcuni Paesi sanzionatori. L’Italia, nota l’Ispi, è tra i più esposti sul fronte energetico, mentre la Germania lo è su quello economico. Ma anche l’Ungheria di Orban, amico di Putin, sarebbe fortemente penalizzata. Mentre agli ultimi posti di questa classifica ci sono gli Usa.

Il problema è soprattutto energetico perché la dipendenza dell’Europa dal gas russo è perfino aumentata nell’ultimo decennio, e invece dal punto di vista commerciale le relazioni sono in decrescita dal 2014. Infatti, «il peso della Russia nelle esportazioni dell’Ue è diminuito del 40%» e gli Stati Ue «hanno dimezzato le loro esportazioni verso la Russia (meno del 2%)», la stessa percentuale che si registra negli Usa.

Mosca in questo è stata previdente: per proteggersi da ulteriori sanzioni, «ha ricostituito le sue riserve» che ora «ammontano alla cifra record di 630 miliardi di dollari», il 40% del suo Pil, «contro una media del 9% detenuto dalle banche dell’Eurozona». «E mentre nel giro di 5 anni la quota in dollari è scesa dal 40 al 13%, quella in renminbi è triplicata dal 5 al 15%». Gli stoccaggi di gas in Europa sono invece ai minimi degli ultimi 5 anni, al 32% della capacità totale, «abbastanza per superare l’inverno ma non sufficienti a permettere all’industria europea di operare a pieno regime dal prossimo autunno». Così, nel caso di una vera e propria “austerity energetica” come quella degli anni ’70, «la produzione dell’Eurozona diminuirà dello 0,2% entro il 2022». La perdita attesa per l’Italia, particolarmente dipendente dai rubinetti Gazprom, secondo l’Ispi è «dello 0,8% del proprio valore aggiunto».