A guastare la festa al Paziente 247 – e con lui a tutto il Vietnam che venerdì si era svegliato festeggiando 8 giorni senza nuovi casi di Covid -19 – sono stati due studenti rientrati dal Giappone il 22 aprile e, da ieri, positivi. La stampa vietnamita, che venerdì mattina celebrava l’uscita dall’ospedale del Paziente 247 ha dovuto in serata dare la notizia dei due nuovi casi ora in cura all’Ospedale Nazionale per le Malattie Tropicali, dopo che il test ha dato risultato positivo.

SI TRATTA DEL PAZIENTE 269, maschio di 23 anni del Comune di Hurng Mai, e del Paziente 270, femmina di anni 22 anni, del distretto di Tien Dong. Riportiamo i dati seguendo un protocollo ormai diffuso non solo in Vietnam ma, per esempio, anche qui in Myanmar. La procedura è rendere noto il sesso, l’età e la residenza del positivo/a e di trasferirli immediatamente in una quarantena sanitaria sicura. Tutti dunque conoscono il luogo e possono, se del posto, persino riconoscere le persone e dunque anche sapere se sono entrati in contatto con positivi. Una pratica che funziona, accompagnata a lockdown selettivi – più o meno duri – che arrivano sino a blocchi semi parziali, parziali o totali di intere aree o villaggi.

FUNZIONA COSÌ BENE che il Vietnam conta oggi un numero totale di pazienti infetti a livello nazionale di 270 con un numero di dimessi di 225 e – fino a ieri sera – otto giorni senza un nuovo caso. Decessi? Nessuno dal primo positivo registrato il 23 gennaio. Attualmente, 68.890 persone sono in quarantena, 352 delle quali isolate negli ospedali. Le cose non sono molto diverse negli altri Paesi «cintura» della Repubblica popolare cinese.

Venerdì il Myanmar contava 139 casi e 5 decessi, il Laos 19 casi e nessun morto, la Cambogia 122 e nessuna vittima. Le cose cambiano un po’ nel resto del Sudest asiatico (in totale 36.700 casi e oltre 1.300 morti) con la Thailandia (2,854 casi, 50 decessi), Singapore (12,075-12), Filippine (7.192-477) Malaysia (5.691-96) e Indonesia (8.211-689), quest’ultima forse l’incognita più grossa. Ma il fatto resta.

I PAESI CONFINANTI con la Cina, paesi tra l’altro dove in alcune aree è elevato il numero di cinesi stabili o temporanei (Cambogia, Myanmar) o i numeri della comunità cinese d’Oltremare (Vietnam), hanno lavorato bene. I «gufi» che a inizio pandemia avevano puntato il dito sui sistemi sanitari nazionali (effettivamente pessimi) dei Paesi «cintura» e che ne avevano previsto il collasso sono stati smentiti. Come si spiega? E, soprattutto, c’è qualcosa che queste esperienze possono insegnare?

Si possono mettere assieme un po’ di fatti. Il primo è stato la chiusura quasi totale delle frontiere di terra con la Cina. In forme diverse ma rapidissima, appena si è avuta notizia del virus. Poi l’individuazione e l’isolamento dei singoli casi con veri e propri lockdown di interi villaggi (Vietnam) e l’istituzione di strutture apposite.

Infine direttive molto precise su cosa fare e cosa no. Un altro elemento lo suggerisce Irrawaddy, un giornale birmano: l’arrivo di consiglieri cinesi per gestire la crisi e, così, le buone relazioni col primo anello della futura Via della Seta.

COSA NON SEMPRE FACILE: il Vietnam infatti ha appena protestato con Pechino che ha approvato l’istituzione dei distretti di Xisha e Nansha, suddivisioni della città di Sansha sull’isola cinese di Hainan. Xisha governerà le isole Paracels e le acque circostanti, mentre Nansha coprirà le Spratly e le acque adiacenti. Isole del mar cinese da anni al centro di contenzioso. Non di meno la collaborazione sanitaria (kit, apparecchiature, consigli) ha però funzionato.