Negli ambienti del giornalismo sportivo (tanto quello su carta quanto quello televisivo) il libro di Luca Bifulco e Francesco Pirone, A tutto campo. Il calcio da una prospettiva sociologica (Guida, pp. 240, euro 10) sta suscitando interesse e dibattiti. Sarebbe un torto, però, relegare questo saggio in quell’unico contesto culturale, quando, invece, esso chiede, come recita con perentorietà il sottotitolo, di essere valutato in primo luogo dalla teoria sociale.

Le tesi del libro non sono formulate nel vuoto, ma, come tutte le argomentazioni scientifiche che si rispettino, s’inscrivono in una nobile tradizione sociologica – in prevalenza contemporanea – definita da opere come Sport e aggressività di Norbert Elias e Eric Dunning, Descrizione di una battaglia di Alessandro Dal Lago, Programma per una sociologia dello sport di Pierre Bourdieu e da diversi interventi di Vittorio Dini uno dei quali, Maradona, héros napolitain, fu pubblicato proprio sulla rivista di Bourdieu, i prestigiosi Actes de la recherche en sciences sociales. Nelle sue linee generali, questa è la tradizione in cui il libro di Bifulco e Pirone nasce. Appartenere a una tradizione, però, non è cosa semplice: o la si rinnova o si è destinati a ripeterne le conquiste. Nel primo caso si è davvero eredi, nel secondo si finisce epigoni.

Ora, se Bifulco e Pirone sono eredi di questa tradizione, lo sono perché sanno che il nostro calcio non è quello dei nostri padri. Da bravi sociologi sentono che lo spazio sociale in cui il fenomeno sportivo viene collocato, ha subìto nell’ultimo ventennio delle radicali trasformazioni: ascesa del neoliberismo, globalizzazione dei mercati, finanziarizzazione del capitale e mediatizzazione del vissuto quotidiano. Per dirla con Deleuze e Guattari, una nuova Guerra dei Cent’anni. A tutto campo fa dipendere i processi di trasformazione del calcio da questo complesso quadro storico-teorico.

Siccome il compito del ragionamento scientifico è quello di semplificare quanto più possibile per rendere accessibili a tutti le sue scoperte, renderemo semplice anche il discorso di Bifulco e Pirone. Il calcio, al pari di tutti i fenomeni sociali, si struttura in un polo soggettivo, quello dell’agente sociale, e in uno oggettivo, quello dell’apparato istituzionale. In questo caso, il ruolo di agente sociale è ricoperto dal tifoso, mentre quello dell’istituzione dall’industria calcistica.

Chi è il tifoso oggi? Bifulco insiste molto sulla dimensione emotiva che connota lo statuto di questo agente sociale, sulle pratiche «narrative» con cui questi costruisce la sua identità e le sue appartenenze di gruppo. Ma non è qui che si situa l’originalità della sua riflessione. Questa appare nel momento in cui l’autore delinea la strutturazione gerarchica dello spazio in cui il tifoso è situato: «lo stadio non è un luogo omogeneo, ma diviso in zone e settori diversi, ognuno con una sua connotazione sociale… Le tribune sono più costose e difficilmente accessibili a tutti rispetto alle curve… Ciò che cambia è la visuale, la possibilità di seguire la partita in maniera più tranquilla e, ovviamente, questioni legate alla distinzione … In aree più specifiche, come le zone destinate ad autorità, sono il prestigio e la reputazione, più che la capacità economica, a circoscrivere l’accesso. Ma anche le curve stesse, le zone più popolari, sono luoghi eterogenei». Per quanto emotivamente instabile e identitariamente arroccato, il tifoso è oggettivamente situato in uno spazio che lo delimita e gli assegna significati sociali differenti a seconda del posto occupato. Dopo l’agente, l’istituzione.

Cos’è l’industria calcistica oggi? Per Pirone sono due i processi che permettono di definirla: «l’aziendalizzazione dei club e la commercializzazione del calcio-spettacolo. Il risultato è l’incorporazione della logica economica dello show business in quella sportiva tradizionale».

Attento al ruolo giocato dalla televisione a partire dagli anni ’90 e attualmente dalle tecnologie digitali di comunicazione, Pirone, con molta intelligenza, invita a non fare affidamento esclusivo sulla determinante economica per capire il funzionamento dell’industria del calcio, ma a considerare anche «tutte quelle forme di scambio sociale non di mercato… che producono le risorse immateriali di passione, interesse e attenzione». Un’industria che si alimenta della ricchezza immateriale diffusa nel corpo sociale.

Attraverso partite e campionati, il tifoso e l’industria calcistica si riproducono all’infinito, il primo fornendo quel materiale emotivo che la seconda provvederà a catturare, esaltare e ad appagare (con spettacoli tv e gadgettistica varia).

Ora, una sociologia del calcio pensata con il paradigma elaborato da Bifulco e Pirone – che fa suoi anche fattori macro e micro come il potere ingerente della Fifa e la serietà della professione del calciatore – quale obiettivo politico si propone? Ingenuamente gli autori, come sostengono nell’Epilogo, si auspicano di ottenere, per il loro amato oggetto di studio, il riconoscimento della sociologia accademica italiana. Ma non si farà il torto di lasciarli a questa assurda ingenuità e alle loro intenzioni coscienti.

L’obiettivo politico di una sociologia del calcio di questo tipo dovrebbe essere quello di avviare un processo di ridefinizione del rapporto tra intellettuali e masse».

Non più intellettuali alla Elias Canetti che ascoltavano con trasporto e interesse le grida dei tifosi provenienti dallo stadio e, invece di andare sugli spalti a vedere di cosa si trattasse, rimanevano nella loro stanzetta a scrivere Massa e potere, ma finalmente intellettuali disobbedienti alle regole imposte da ogni tipo di conformismo (accademico in primo luogo), che spontaneamente si fondono con masse festose e gioiose per capirne dall’interno, dal basso, i comportamenti. E chissà, forse in un futuro non troppo lontano, potranno anche arrivare a orientarle in senso rivoluzionario. All’ingenuità degli accademici bisogna sostituire l’utopia dei dirigenti politici.