Dongguan, città di otto milioni di abitanti nel Guangdong, la regione produttiva per eccellenza della Cina sudorientale, che da sola produce un quinto delle esportazioni, è nota per due cose: le fabbriche e i bordelli.

In Cina si dice che dove sorge un insediamento di «lavoratori migranti», crescono immediati anche i negozi «gialli» (il colore che indica la prostituzione). A Dongguan questa doppia caratteristica per certi versi esemplifica la Cina di oggi; la sofferenza e il lavoro, la produzione, la fabbrica del mondo e la Sin City, come è stata ribattezzata Dongguan, la «città del peccato». A disposizione però, non solo dei lavoratori, quasi tutti migranti con famiglie e vita sociali lontane, ma anche per i laoban, i boss, gli imprenditori e i politici che in un modo o nell’altro, spesso dal niente, hanno messo su i baracconi e le piccole città-fabbrica nelle quali gli operani lavorano e consumano la propria vita, con stipendi da fame e in balia della legislazione cinese per quanto riguarda le coperture sociali.

In questi luoghi si produce di tutto, soprattutto abbigliamento e scarpe. Gli abitanti della «Sin city» se la sono vista brutta già alcune settimane fa, quando una retata ha colpito centinaia di persone. Seimila gli agenti utilizzati per la chiusura di molti bordelli. E ieri, come già ad inizio aprile, anche gli operai si sono fatti sentire con uno sciopero di ampie proporzioni, diecimila i partecipanti secondo i testimoni. Sono i lavoratori dello stabilimento Yue Yuen, gruppo taiwanese che produce scarpe (è la più grande al mondo) per marchi rinomati e noti in Occidente, come Nike, Adidas, Reebok, Asics, New Balance, Puma, Timberland.

L’azienda ha 70mila operai, che oltre a basse paghe non hanno alcuna compensazione di natura sociale: non hanno welfare, né agevolazioni sulla casa e si rifanno sull’azienda, sapendo di produrre per marchi noti in Occidente. Rivendicano i pagamenti dei diritti sociali (che ogni cinese di solito chiede in modo molto determinato al proprio datore di lavoro) dal 2006. Non si tratta di pochi soldi. In realtà l’oggetto del contendere è un tema caldo anche per il governo e la leadership, perché la protesta insiste su un fattore ormai insopportabile per la Cina contemporanea, ovvero l’hukou, il «documento di residenza» introdotto da Mao verso la fine degli anni 50, per evitare una migrazione estesa, dalle campagne alla città. Si tratta di un vero e proprio permesso di residenza, che aggancia i propri diritti sociali al luogo di provenienza.

Quando negli anni 80 la Cina si aprì ai capitali esteri e la migrazione dalla campagna alla città si rese invece necessaria per sviluppare i poli produttivi, i leader del paese non cambiarono il sistema, contribuendo a fare una gustosa «cresta» sui lavoratori migranti, senza alcun tipo di welfare nelle città dove andavano a lavorare. Oltre alla sussistenza dovevano anche pagarsi, come oggi, i servizi basilari: sanità e istruzione per i figli ad esempio. Erano altri tempi, si usciva dalla fame nera, dalle cortecce staccate dagli alberi per nutrirsi, o da un carcere o un campo di lavoro dove si era sofferta la Rivoluzione culturale; andave bene quasi tutto.

Oggi non è più così: i lavoratori, anche quelli in linea, sono i figli del miracolo economico cinese e chiedono i diritti, oltre a paghe e condizioni di lavoro migliori. Non è un caso che tra i piani per il futuro del governo cinese ci sia proprio la modifica dell’hukou.

Oggi i cittadini cinesi sono divisi in categorie: il residente a Pechino ha molti più diritti di quello che arriva dalla provincia remota. Si vuole modificare questa legge, con l’intento di aumentare anche la capacità di consumare dei lavoratori migranti. Per ora le proteste scuotono soprattutto l’Occidente, sono oscurate in Cina sebbene viaggiano alla velocità della luce sui social network, dove per altro negli ultimi tempi hanno perso intensità.

Tra gli oltre 180mila «incidenti di massa» che avvengono ogni anno (scioperi, proteste) in maggioranza sono contro fabbriche inquinanti. Secondo quanto comunicato dall’ong di Hong Kong, ma fondata da un cinese, primo a creare un sindacato libero a Pechino e poi esiliato, China Labour Bulletin, l’azienda avrebbe promesso ai lavoratori la firma di un nuovo contratto dal primo maggio; nel nuovo accordo dovrebbe essere prevista la spesa sociale a carico dell’azienza, ma i lavoratori non si fidano e forse vorrebbero qualcosa di più.

Il dato che emerge infatti, è che anche dalla Cina, che pure prosegue la sua intensa attività di «fabbrica del mondo», per quanto ormai si stia sperimentando sul terreno dei servizi e dell’innovazione, ormai si delocalizza, tra Vietnam, Laos. Paesi dove il costo del lavoro è ancora più basso che in Cina.