La strada è coperta di scritte cubitali – «liberi tutti», «chiudere i Cie», «basta lager». Anche sul muro di cinta del Cie di Gradisca d’Isonzo (Gorizia) è stata scritta la parola «libertà» in italiano, inglese, francese, greco, arabo, tedesco, russo e sloveno.
Per ieri era convocata una mobilitazione della società in protesta per le condizioni di vita nel peggior Cie d’Italia – se può esserci un meglio per questi luoghi – al grido «lasciamo il segno».
La situazione era andata peggiorando dal giorno 8 agosto, il Bayram, la festa della fine Ramadan. Quel giorno, gli «ospiti» del Cie di Gradisca vogliono festeggiare all’aperto, insieme. Si fa per dire: in piccoli gruppi, in gabbie chiuse ai lati da lastre di plexigas e con una grata come soffitto.
Ma non è possibile, nemmeno questo. Si rifiutano di essere chiusi all’interno delle camerate, interviene la polizia, lancia i lacromogeni negli spazi chiusi in cui si trovano le persone, entra in assetto antisommossa.
Scoppia una protesta e da lì è un’escalation. Domenica sera vengono nuovamente usati i gas lacrimogeni, i detenuti salgono sul tetto dove rimangono per quasi venti ore. Poi possono finalmente comunicare all’esterno e lo fanno ponendo richieste concrete.
I migranti di Gradisca non possono avere i telefoni, non possono avere neppure un foglio di carta (non ricevono in visione nemmeno il regolamento), non possono usare spazi comuni, la mensa seppur agibile non funziona, non c’è libertà di movimento, la lavanderia non funziona da più di un mese. E c’è un documentato abuso di psicofarmaci. Una perfetta istituzione totale.
Lunedì notte un ragazzo si lancia dal tetto verso il muro esterno, distante 15 metri. E precipita. Ora è in rianimazione, con poche speranze che possa farcela.Di Cie si muore. Nell’anima e nel corpo.
Anche secondo Debora Serracchiani, presidente della Regione, il Cie va chiuso. Secondo Luigi Manconi, presidente della Commisione diritti umani del Senato, anche. Persino i sindacati di polizia sono d’accordo. La Connecting People, gestore del Cie, evidenzia «l’attrito tra le regole imposte e la dignità delle persone [..]resta lo sogmento, assolutamente giustificato, che coglie i visitatori».
Sono dieci anni che una coalizione sociale determinata davanti al Cie ha resistito, boicottandone la costruzione, ritardandone l’apertura, assediandolo più volte, nel territorio in cui nel 1998 fu assediato e poi chiuso il primo Cie, quello a Trieste, nel porto vecchio.
La volontà rimane la stessa: portare a verifica la volontà espressa da chi ha responsabilità istituzionali, assediando il Cie in tutti i modi possibili. Continuando con le visite, incessantemente, per garantire che quei minimi diritti fondamentali, riacquisiti ieri per la pressione esercitata all’interno e all’esterno del Cie, non vengano più scippati. Sollevando e forzando tutte le contraddizioni, politiche, sociali, sanitarie, amministrative.
Ieri la trama di questa coalizione sociale si è stretta nuovamente intorno al Cie, nonostante la questura tentasse il boicottaggio. Nonostante il regolare preavviso, 24 ore prima venivano notificate misure restrittive immotivate, ritirate dopo ore di pressione sul Questore in serata. E ripristinate a poche ore dal presidio perché la prefetto ha rigettato il ricorso.
Mentre i migranti «ospiti» salivano sul tetto e dal tetto parlavano, si raccontavano – più della metà ha perso il permesso di soggiorno a causa della crisi dopo aver lavorato per anni e versato anni di contributi; molti hanno figli che parlano italiano come lingua madre – la strada è stata occupata, il traffico bloccato, il Cie assediato.
Piccoli ma importanti pezzi di democrazia riconquistati contro l’esercizio illegittimo del potere noro.
Contro il Cie di nuovo rivivono la dignità, la democrazia, la fratellanza.
Con amore e rabbia.