È difficile fare un bilancio accurato e sistematico del lungo ciclo liberista che ha caratterizzato la politica delle città dalla crisi del fordismo a oggi. Una rozza classificazione tripartita contrappone le città «che ce l’hanno fatta» a quelle che hanno imboccato un cammino di stagnazione e di declino, incapaci di ridefinire la propria vocazione produttiva e i propri assetti urbani. In mezzo, le città – probabilmente la maggioranza – ancora alla ricerca di una uscita dal passato e di un equilibrio in grado di autosostenersi. Al di là dell’ampia varianza delle performance urbane, due sono le tendenze generali che sembrano emergere dalla trasformazione in corso. La prima è la crescente disuguaglianza tra i vincitori e i vinti della «modernizzazione urbana»: da una parte le città che hanno compiuto con successo la transizione trasformandosi in poli della ricerca e dell’innovazione, capaci di attirare capitali, talenti, opportunità, servizi di eccellenza, alti salari; dall’altra, le città che sono rimaste al palo, depauperate di centri produttivi, di capitale umano, di opportunità di invertire la tendenza e risalire la china. Alla disuguaglianza tra le città è andata accompagnandosi una crescente disuguaglianza nelle città, fatta di polarizzazione sociale e territoriale, tra zone gentrificate, ricche di servizi, vocate al buon vivere e al loisir, e zone lasciate alla marginalità e al degrado. Questa deriva dualistica, che inizialmente sembrava riguardare soprattutto le città segnate dall’insuccesso e dal ritardo, tende in realtà a estendersi a quei centri – il caso di S.Francisco è esemplare – dove i nuovi insediamenti di lavoratori della conoscenza hanno fatto lievitare i costi delle abitazioni e dei servizi al punto da renderli insostenibili per la maggior parte della popolazione non coinvolta nelle attività di punta.

In questo scenario in rapida trasformazione, ma in un contesto nazionale sempre più marginale, Torino si pone come realtà intermedia, sospesa tra transizione e declino, ma con sempre più evidenti segnali di sofferenza. Sulle strategie di sopravvivenza, prive di respiro prospettico, che ne caratterizzano oggi lo stile di governo incidono non solo gli effetti della stagnazione economica degli ultimi anni e quelli indotti dalla «fine del lavoro» generata dalle innovazioni tecnologiche labour-saving, ma anche le scelte e i risultati di policy conseguiti dal regime urbano che ha governato la città a partire dal 1993. Il bilancio di quella stagione di governo – spesso esaltata come innovativa e performante fino a fare della città e della sua leadership un modello nazionale per la politica urbana se non addirittura per la politica tout court – è stato in realtà ricco di chiaroscuri e di impasse, deludente nelle sue pretese «rivoluzionarie», comunque non in linea con gli obiettivi ambiziosamente dichiarati dai suoi governanti nei vari piani strategici. «Cambiamento senza metamorfosi» è la formula che meglio sintetizza i risultati del ventennio. Dal ciclo ventennale la città è uscita strutturalmente più debole di come vi era entrata, depauperata di quegli anticorpi economici, sociali, e anche politici, che avrebbero potuto contrastarne la decadenza.

Sin dall’inizio di questa fase, il gruppo dirigente locale individua nelle politiche di crescita competitiva (nella forma di politiche dell’offerta) la via obbligata per superare il modello di sviluppo industrialista, centrato sull’automotive e sulla produzione manifatturiera di serie. Che la crescita si identifichi con il bene comune della città, e che dal suo sgocciolamento sulla società urbana debbano provenire le risorse per alimentare il welfare locale, non più componente organica di uno sviluppo sostenibile ma sottoprodotto della nuova politica, è un’idea ampiamente condivisa nella Torino di fine-inizio millennio, tipicamente in linea con la cultura del neoliberismo trionfante. In questa chiave, il compito del potere pubblico è di creare, attraverso incentivi e infrastrutture, «un buon clima per gli affari», in modo da mantenere e attirare nuove imprese, risorse finanziarie e capitale umano sul territorio. Questo obiettivo strategico viene perseguito attraverso tre cluster di politiche pubbliche: politiche rivolte a promuovere la rigenerazione urbanistica della città sulle linee del nuovo piano regolatore; politiche indirizzate a favorire e promuovere l’innovazione tecnologica e la differenziazione dell’apparato produttivo locale, potenziando gli aspetti (le nuove tecnologie dell’informazione) e le strutture (l’Università, il Politecnico, i centri di ricerca) legati all’economia della conoscenza; politiche, rivolte a sviluppare il settore dell’intrattenimento (complessivamente e spesso disinvoltamente rubricate come «cultura»), riqualificando il settore dei musei, del cinema, del teatro, promuovendo lo svolgimento di grandi eventi periodici (i saloni ecc.) e non (le Olimpiadi) in grado di attirare turisti. Di accompagnare proattivamente questo progetto di cambiamento urbano si fa carico un’ampia coalizione di governance, articolata e flessibile ma ideologicamente coesa, aperta alla negoziazione tra la comunità degli affari e delle professioni e il potere pubblico, ma schermata verso il basso e refrattaria ad aprire canali di comunicazione con una cittadinanza sempre più spoliticizzata e suddita.

Che il progetto incarnato da questo regime di crescita urbana non si sia realizzato che in minima parte – quella legata allo sviluppo edilizio, al miglioramento estetico e alla vocazione turistica e ricreativa della città, in parte dell’Accademia – è oggi più che un sospetto che circola negli stessi ambienti governativi, anche se le responsabilità vengono prevalentemente attribuite alla crisi economica post 2008. Oggi Torino è drammaticamente più incerta sul suo futuro di quanto non fosse vent’anni fa. A nostro giudizio, le cause della metamorfosi mancata sono molteplici e risalenti. In primo luogo, la dispersione delle risorse su un arco troppo esteso di progetti, che hanno privilegiato l’intrattenimento e l’espansione edilizia, e impedito la realizzazione di una «Torino politecnica» capace di ricodificare i saperi e le risorse tradizionali nei moduli dell’economia dell’informazione. In secondo luogo ha pesato l’apporto condizionale alla realizzazione della core agenda da parte della locale comunità degli affari, sospesa tra opportunismo e atteggiamento rivendicativo, a cui ha fatto riscontro la rinuncia dell’élite politica a esercitare funzioni di regia e di guida. In terzo luogo, ha agito da freno la chiusura oligarchica della classe dirigente locale, cristallizzatasi attorno ad alcune strutture elitarie (come le Fondazioni bancarie) e selezionata non attraverso la battaglia delle idee e la lotta politica (a Torino non si vede da vent’anni una opposizione decente), ma attraverso gli ambienti elitari e rarefatti dei milieu cittadini, nella crescente atrofia ideale e organizzativa dei partiti locali.

La penombra in cui è avvolta la situazione torinese, il suo stallo strategico e ideale, pongono in risalto il tema che in questi anni è stato assente non solo dall’agenda cittadina ma dallo spirito del tempo, a Torino come altrove: quello dell’edificazione di una «città giusta», equa e sostenibile, e perciò intelligente, capace di mediare autorevolmente tra il presente e il futuro del lavoro.