La scorpacciata era prevista, ma il dato finale delle elezioni serbe di domenica, convocate anticipatamente, va persino oltre i pronostici. Il Partito progressista (Sns), di ispirazione conservatrice, ha ottenuto il 48%. È il doppio rispetto al voto del 2012 e porta in dote almeno 150 deputati, sui 250 totali. L’esecutivo sarà con ogni probabilità un monocolore. Mai successo, nell’era post-Milosevic. A presiedere il governo sarà Aleksandar Vucic, presidente dell’Sns e trionfatore assoluto della tornata. Ha voluto questo voto, rompendo la coalizione con il Partito socialista (Sps), proprio perché intendeva, forte dei sondaggi, giocare la carta dell’assolo. È stato aiutato dall’implosione del campo moderato, segnato dalla faida tra i due uomini forti del Partito democratico (Ds), Dragan Djilas e l’ex capo dello stato Boris Tadic, che ha dato vita al Nuovo partito democratico (Nds). Entrambi hanno a malapena superato lo sbarramento del 5%. L’Sps ha confermato il 14% del 2012. Il resto dei partiti, esclusi quelli delle minoranze, restano fuori dall’assemblea. Macelleria elettorale.

La vittoria di Vucic affonda le radici nella scelta compiuta nel 2008 da Tomislav Nikolic, l’attuale capo dello stato. Ruppe con il Partito radicale (Srs), interprete del nazionalismo oltranzista, spostando l’accento sul conservatorismo e trasformando il rifiuto dell’Europa in prospettiva d’adesione. Nikolic ha così rivoluzionato l’offerta politica, ucciso l’Srs (ridotto a un misero 2%) e spianato la strada alla svolta del 2012, quando fu messa la parola fine al dilemma storico della destra serba, capace di primeggiare alle urne ma esclusa dal potere, a causa del verbo radicale. In quell’anno Nikolic sconfisse Tadic alle presidenziali. Le politiche sancirono la nascita di una coalizione tra l’Sns e i socialisti. Vucic assunse la carica di vice primo ministro e la gestione della lotta alla corruzione.

Ci ha messo una foga notevole, ottenendo dosi crescenti di consenso, offuscando il primato di Nikolic nel partito e accreditandosi come l’uomo nuovo della destra. Vucic ha fatto da garante sugli accordi tra Serbia e Kosovo, che hanno parzialmente fluidificato i rapporti bilaterali tra i due paesi, permettendo a Belgrado di avviare i negoziati di adesione all’Ue. Una volta incassato questo obiettivo, ha preteso il voto anticipato. In campagna elettorale s’è ritagliato l’immagine di politico moderno e dinamico, senza rinunciare a sintonizzarsi sulle frequenze del narod, il popolo. Con fare paternalistico, come quando s’è fatto riprendere dalle tv, nel corso di una tormenta, a tirare fuori un bimbo intrappolato in un’auto sommersa dalla neve. Vucic ha compreso che i serbi hanno bisogno del comando forte. L’economia è uscita dalla recessione e macina export, prodotto però dalla grande manifattura straniera – in primis la Fiat – e non genera ricadute su consumi e occupazione.

Oggi un serbo su cinque non ha lavoro. In una fase di emergenza sociale e frustrazione, si fa strada il bisogno di leadership forte e ci si culla con le promesse. Le antenne di Vucic l’hanno captato.

Il primo ministro in pectore ha garantito lavoro e salari migliori. Ma sa che questo è legato a uno shock riformista, che avrà la sua durezza. Prima di avviare la terapia s’è assicurato il plebiscito.