Forse quel che proprio non bisogna fare, davanti a un testo di Harold Pinter come Silenzio, è cedere alla tentazione di leggervi lo sviluppo di una trama narrativa. Mettere insieme le scarne informazioni che trapelano dalle frammentatissime parole dei tre personaggi che occupano la scena per ricostruire una situazione, un tempo e un luogo dell’azione, coerenti rapporti personali.

E poi: sono davvero tre i personaggi? E si tratta davvero di personaggi? Certo, si presentano con tre nomi sulla carta, cioè da copione. Ma poi quei nomi sulla scena non vengono mai pronunciati. Tutto qui diventa più ambiguo, sfuggente. Pinter come sempre è bravissimo a mescolare le carte, a creare zone d’ombra. A distrarre l’attenzione dello spettatore, lasciandola slittare in maniera impercettibile verso i meandri di un sottotesto che si rivela progressivamente. E che porta verso il silenzio del titolo.

Conta anche il fatto che questo breve testo, Silenzio, poche volte rappresentato, si colloca in una sorta di punto di flesso della scrittura per il teatro dell’autore inglese. Pinter lo scrive nel 1968, anno per altri versi rammemorato di cui però non porta il riflesso. C’è anzi quasi un voluto disinteresse per quelle vicende che segnano l’immaginario di una generazione, nel volgersi invece verso una dimensione all’apparenza molto privata. Teatro della memoria, si è detto. Giacché lì va a pescare, in quell’interstizio fra passato e presente. Con un cambio di passo non lontano da quanto sperimentato da Samuel Beckett, riconosciuto amico e maestro, in quegli ultimi lavori sempre più rarefatti. Alle spalle sta un decennio di testi che hanno dato a Pinter un’ampia, a volte controversa notorietà, dal Compleanno al Ritorno a casa. Che vuol dire anche la padronanza dei propri mezzi espressivi e uno stile riconoscibile. Ora lo staccarsi delle parole da un’azione concreta accresce, e non è paradosso, la necessità di dargli corpo.

Conviene allora restare ben piantati sulla scena, sul palcoscenico del teatro Francesco di Bartolo a Buti. Dove Dario Marconcini ha messo in scena benissimo il testo. Sulle note autunnali di una canzone di Paolo Nutini, le sagome di tre figure si stagliano in controluce sul paesaggio nebbioso disegnato sul fondo. Un pittorico intreccio di rami spogli, una foresta priva di vita. Un’immagine lontana e tuttavia avvolgente, nell’isolare quelle figure da tutto ciò che è esterno, come in un quadro di Bacon. Stanno seduti in fila, in primo piano, quasi sempre senza guardarsi. Lei più in alto, su uno sgabello da bar; i due uomini su poltroncine che, nella loro diversità, sembrano connotare anche una (forse ingannevole) differenza sociale – ed è ancora il Beckett di Dondolo che può tornare alla mente. Parlano, a turno. Spesso con lunghe pause. Ricordano – solo la metà delle cose, dice lei, solo la prima parte. E questo ricordare a metà è il sintomo esteriore di una perdita di memoria che si fa specchio delle volontà di ritrovarsi in un passato che sbiadisce. Non per caso parlano al presente, quasi senza eccezione. Come se si descrivessero nell’atto di compiere ora quelle passeggiate, quelle fughe in città, quegli incontri fugaci su cui si ostinano. Per pochi momenti si sollevano in piedi, si lanciano uno sguardo, sembrano dare inizio a un dialogo. Ma è un falso movimento, che prosegue quel loro solitario cercare nelle parole un sentimento perduto.

L’assenza di un tempo storico, l’impossibilità di dare una cronologia ai momenti evocati, è del resto la prova più marcata del fatto che quel che sta al centro non sono i singoli atti ricordati, per altro di dubbia veridicità, pervasi da un’ambiguità persino un po’ losca, ma l’atto stesso del ricordare. L’essere vecchi è l’unica condizione esistenziale riconoscibile, la solitudine il necessario corollario. Il tempo che conta è quello della scena, il tempo vissuto anche dallo spettatore. Quello in cui si consuma, con un brivido, l’avvicinarsi al silenzio. Il silenzio dell’afasia e della smemoratezza, non quello vitale di John Cage. Perché le parole con cui si ricordano a se stessi prendono a ripetersi, entrano in un gorgo che le svuota e poi le abbandona, ormai senza senso.

Resta da dire degli interpreti, che sono bravissimi, Giovanna Daddi e Emanuele Carucci Viterbi insieme allo stesso Marconcini. Daddi e Marconcini hanno ancora bene a mente la lezione del grande Jean-Marie Straub, la burbera maniera in cui li sollecitava a leggere ogni riga di un testo come uno spartito musicale (era allora Pavese…), e si riflette nei lavori che da diversi anni vanno proponendo. Scelte appartate, raffinatamente minimali, come la scoperta di alcuni testi meno noti di Bernard-Marie Koltès. O il Racconto della serva Zerlina della scorsa stagione, che proiettava gli Incolpevoli di Hermann Broch fra i colpevoli della storia. Un dono, detto senza retorica. Repliche ancora oggi (21.15) e domani (17.30 e 21.15).