«Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche e enormi come uova preistoriche».

Questo è l’incipit del più famoso romanzo dell’allora quarantenne Gabriel García Márquez, che nel 1967 venne pubblicato a Buenos Aires. Fin dal titolo metteva l’accento su un tempo labile e eterno: Cent’anni di solitudine. L’anno dopo, nel mitico ’68, avrei comprato il romanzo a Parigi (era già apparso in traduzione per Seuil): mi stordì come una mazzata. La mia sensazione era condivisa. Non a caso nel 1969 Cesare Segre sceglieva di chiudere il suo volume I segni e la critica con un saggio sul «Tempo curvo di García Márquez».

Contro Pinochet

Certo, allo scrittore colombiano non sono mancati i riconoscimenti, valga per tutti l’assegnazione del Nobel nel 1982, che sottolineava come il suo lavoro riflettesse «un continente e le sue povertà e ricchezze umane»; mentre Jorge Luis Borges, candidato nello stesso anno, lo riconosceva «straordinario» e «magnifico». Ma, almeno all’inizio, la vita di Márquez non era sembrata eccezionale: gli studi presso un collegio di Gesuiti a Barranquilla, la frequentazione della facoltà di Legge, il lavoro come giornalista che lo portò a Roma, Parigi, New York, Bogotá, La Habana, Città del Messico, fino al 1967, quando decise di trasferirsi a Barcellona con la moglie e i figli. Intanto aveva iniziato a scrivere testi in cui venne rintracciata la «germinazione» di Cien años de soledad: apparvero, per esempio, i primi colonnelli e dottori nei racconti pubblicati in El coronel no tiene quien le escriba (1961) e Los funerales de la Mamá Grande (1962). E dopo il suo libro fondamentale, ed il suo grande successo, nel 1975 uscì L’autunno del patriarca.

Successivamente Márquez si impegnò in maniera diretta in una serie di battaglie politiche, decise di non pubblicare altre opere di narrativa fino a che Pinochet sarebbe stato al potere in Cile; intanto il suo lavoro di giornalista si faceva più intenso. Nel 1981 venne pubblicato Cronaca di una morte annunciata, che lo scrittore riteneva la sua opera migliore, insieme a Il colonnello non ha chi gli scriva. Dalla Cronaca Francesco Rosi avrebbe tratto un film nel 1987; Márquez stesso si avvicinò al cinema, scrivendo anche sceneggiature, una delle quali, Il sequestro, apparve tradotta nel 1984 per Mondadori, con una introduzione di Cesare Acutis.

Nel 1985 si pubblicò a Barcellona, per la casa editrice Bruguera, L’amore ai tempi del colera, tra le cui pagine sono stati rintracciati echi e prolungamenti di Cent’anni di solitudine: l’«amore», da cui il titolo prende le mosse, si staglia su uno sfondo di corruzione e putredine, peste e colera, che chiude il titolo stesso. Vecchiaia, decadenza e morte diventano la cifra di un testo che sintetizza sia i temi che lo stile dell’autore.

Quattro anni più tardi, nel 1989, accompagnato da una vivace campagna pubblicitaria, uscì Il generale nel suo labirinto, che racconta l’ultimo viaggio di Simón Bolívar, il libertador, da Bogotá alla costa colombiana. Il romanzo suscitò una serie di polemiche che rimproveravano all’autore di aver tradito le vicende storiche, e di aver proiettato su Bolívar l’immagine di Fidel Castro; polemiche che oggi appaiono abbastanza datate, ma che attestano l’eco che Márquez ha sempre saputo suscitare con la sua opera. Ora, con la pacatezza di una prospettiva ormai storica, valutare la considerazione di cui ha goduto García Márquez è più agevole: più di duecento saggi critici sono stati scritti sulla sua opera, almeno cinquanta dei quali concentrati su Cien años de soledad. Ritornano quelle «accelerazioni e inversioni sulla ruota del tempo», che «lambisce una preistoria mitica» di cui parlava Segre, e che illustrano il funzionamento della macchina narrativa. Formule anticipative e ricorrenti come «Anni e mesi dopo» – diceva Cesare Segre – si ripetono nel romanzo, a riconnettere e scandire la memoria, in una «ruota del tempo» anticipatrice del futuro e che fa ritorno al passato: «Abbiamo dunque due tipi di tempo: un tempo mentale, che scavalcando gli anni congiunge momenti di più intensa coscienza, e un tempo-calendario, soggetto a regolari misure. E due tipi di distanza: quella, quasi leggendaria, che divide Macondo dal resto del mondo, e quella molto più modesta che unisce il mondo a Macondo. Due contrasti che hanno alla base una situazione mentale che García Márquez chiama soledad».

Mondi centripeti

La solitudine, nella versione di Márquez, è chiusura in se stessi, così  che la realtà appare rifranta, e potrà solo sfociare nella morte, o nella «endofilia», al «limite dell’incesto». Una solitudine che assume carattere collettivo: «Macondo appare come una serie di cerchi concentrici, con una cospicua forza centripeta cui non corrisponde un’analoga forza centrifuga. Non è solo curvo il tempo, a Macondo, ma anche l’universo mentale della collettività. I fatti di origine esterna incidono, anche sanguinosamente, ma incontrano solo una reazione passiva; gli abitanti non sono in grado di prendere contatto con realtà diverse da quelle del loro privato orizzonte». E forse la rilevazione strutturale ci dice molto anche di un giudizio «politico» più profondo e angoscioso.

È curioso che, al di là dello scardinamento formale, la mia generazione sia stata affascinata proprio da una denuncia «politica», tanto più ineludibile quanto indiretta. Eppure qualcuno ha parlato di mancanza di «impegno» sociale da parte di Márquez, accusa da cui anche recentemente la critica spagnola ha tentato di difendere l’autore. Passato il momento più vivace dell’impatto di un nuovo modello di scrittura, sarà quindi giunto il momento di una riflessione che riconsegni a nuove meditazioni il mondo problematico di Gabriel García Márquez.