Pianista itinerante e letterato in perenni difficoltà economiche e sentimentali, Felisberto (il destino eccentrico è nel nome!) Hernández, nato nel 1902 e morto nel 1964 nella sua città natale, Montevideo, appartiene, anno più anno meno, a quella generazione di scrittori latinoamericani che a partire dagli anni venti hanno demolito con micidiali fuochi di sbarramento la grigia tradizione realista-naturalista della letteratura ottocentesca in lingua castigliana, teorizzando e praticando in poesia e in narrativa una appartenenza culturale moderna e avanguardista, molto più francese che spagnola.

Difficile dire quanto consapevole fosse Felisberto di questa appartenenza, la sua vita quotidiana era complicata e angusta, i rapporti con il mondo letterario abbastanza precari almeno fino alla fine degli anni quaranta, quando la pubblicazione dei volumi di racconti Nadie encendía las lámparas, del 1947 e Las hortensias, del 1949, gli valse un riconoscimento nei circoli rioplatenses più attenti alle novità.

Grandi elogi gli vennero comunque da Italo Calvino e da Julio Cortázar (che lo indicava come un suo maestro), e anche generiche frasi di apprezzamento da critici e colleghi locali, che però non sembravano averlo letto nel modo giusto quando era vivo.

L’America latina degli anni venti e trenta è un continente che vive grandi trasformazioni economiche e sociali, la rigida struttura sociale comincia a mostrare le falle che consentiranno la mobilità ascendente di una nascente classe media acculturata e sensibile alle ideologie nazionaliste.

Felisberto non è stato l’unico scrittore autodidatta e di origini sociali modeste di quell’epoca e in quei luoghi, lo sono stati anche Roberto Arlt e Horacio Quiroga, o Manuel Rojas e Pablo de Rokha in Cile, o Juan Rulfo in Messico.

Ma la sua poetica e il suo impegno stilistico rimandano senza dubbio a un altro versante, a quello degli scrittori altoborghesi con ampie disponibilità di tempo e mezzi per perfezionare un’opera fatta di visioni cosmopolite, scrittori che navigano consapevolmente nelle acque della modernità, spesso senza riferimenti a realtà locali, insomma persone come Jorge Luis Borges, Vicente Huidobro o Bioy Casares, o prima di loro Leopoldo Lugones, per dirne alcuni.

A Felisberto è venuta a mancare, tuttavia, la perseveranza e la fiducia in se stesso di un altro grande moderno e cultore della «letteratura fantastica», Julio Cortázar, che da modesto insegnante nella provincia argentina salta al parnaso parigino per diventare un modello di varie generazioni latinoamericane.

Considerazioni sociologiche, si dirà, ma nel caso di Felisberto Hernández hanno un peso, perché in lui più che la rivalsa sociale prevale l’enorme talento «naturale», la facilità con cui alcune sue pagine aprono squarci di tragica lucidità di cui i personaggi – poveri, tristi, metafisicamente pessimisti – sono soggetti spontanei più che frutto di elaborazioni teoriche. Pagine di pura poesia moderna, di prosa audace e irresponsabile, senza reti di protezione. Non gli è bastato per uscire dal novero degli scrittori «minori» di una generazione così piena di talenti ma anche di mezzi per farsi conoscere.

Felisberto coltiva il genere del racconto breve, relatos che spesso si chiudono senza preavviso, come se l’autore e i protagonisti di colpo si stancassero o la trama si facesse troppo veloce, «in questa città così lenta», da diventare incomprensibile, lasciando il lettore alquanto sconcertato. Anche nei racconti di contorno di Le ortensie (La Nuova frontiera, traduzione di Francesca Lazzarato, pp. 189, euro 19,00) lo sfinimento prematuro è una caratteristica dello stile, ma il testo che dà il nome alla raccolta resiste eccezionalmente fino a pagina 60 e il suo protagonista, Horacio, non povero né pessimista questa volta, bensì soggetto a follia collezionista, è figura inconfondibile della penna dello scrittore di Montevideo.

Come spesso accade nei racconti di Hernández, anche qui le donne che affrontano di petto il protagonista assumono un ruolo non secondario. Sono donne con un passato misterioso, un presente inafferrabile e un carattere piuttosto ispido, figure inquietanti che entrano ed escono dalla vita del racconto in modo fantasmagorico (e vale la pena di ricordare, in proposito, che la terza delle quattro mogli di Felisberto, conosciuta durante un soggiorno a Parigi, era stata una spia sovietica coinvolta nell’assassinio di Trotski, e pare che il nostro non l’abbia mai saputo). L’Horacio delle Ortensie finisce invece per innamorarsi di una bambola, grandezza naturale, spingendo la moglie María ad andarsene di casa. Sentimenti amorosi deviati, perversità quasi innocenti, rassegnate debolezze maschili, allucinazioni meccaniche e idrauliche (strepitose in «La casa allagata»), compongono la scena rarefatta di questi racconti introducendo elementi indubbiamente autobiografici ma che in sostanza obbediscono alle leggi della costruzione letteraria avanguardista.

Non manca di senso dell’umorismo Felisberto Hernández, anzi, un umorismo obliquo tipicamente latinoamericano pervade i racconti in funzione di straniamento, le battute sono fulminanti, l’atmosfera onirica e il procedere da sonnambulo, spezzato, appunto, quando bisogna affrettarsi a sciogliere la trama per fare ritorno stancamente alla realtà, una realtà deludente, come certamente sembrava il suo paese a questo scrittore che si sentiva tenuto ai margini. E i racconti di Le ortensie non fanno che confermare uno stato d’animo e una scelta di scrittura che forse gli precludevano fin dall’inizio l’accesso a un pubblico più ampio: «Di quei giorni ricordo sempre i giri in barca intorno a un isolotto coperto di piante. Le cambiavano spesso; ma lì le piante non si trovavano bene. Io remavo seduto dietro il corpo immenso della signora Margarita. Se guardava a lungo l’isola, era possibile che mi dicesse qualcosa; ma non quello che mi aveva promesso; parlava solo delle piante e sembrava voler nascondere tra esse altri pensieri. Io mi stancavo di sperare e alzavo i remi come fossero mani stufe di contare sempre le stesse gocce. Ma già sapevo che, a ogni giro della barca, avrei scoperto ancora una volta che quella stanchezza era una piccola bugia mescolata a un po’ di felicità. Allora mi rassegnavo ad aspettare le parole che dovevano arrivarmi dal mondo quasi muto alle mie spalle, che si spostava grazie allo sforzo delle mie mani indolenzite».

Nell’attuale deserto di letteratura di qualità proveniente dall’ambito ispanoamericano (dopo la bomba atomica Bolaño ciò che è rimasto in campo fa molta fatica a respirare), credo sia degno di encomio lo sforzo di alcune piccole e medie case editrici italiane di riportare alla luce autori che possono essere definiti classici di un primo Novecento di rara fecondità, forse alla lunga più importanti delle star del «boom» anni sessanta. Felisberto Hernández appartiene sicuramente a questa schiera.