Esistono legami sotterranei tra quanto di più sinistro accade sotto i nostri occhi in queste ore sulla scena politica mondiale, dalla brutale stretta repressiva in Egitto ai venti di guerra sull’Ucraina, alla proliferazione di ultranazionalismi fascisti in tutta Europa?

Rispondere non è semplice, forse è azzardato. Una prospettiva che consideri unitariamente fenomeni radicati in contesti differenti non è falsificabile: siamo quindi nel regno dell’opinabile, se non delle impressioni. Inoltre, molto, se non tutto, dipende dalle dimensioni del quadro storico di riferimento, definite con qualche rischio di arbitrarietà. Resta il fatto. Minacciosi segnali di tensione investono non soltanto quelli che nella guerra fredda erano blocchi contrapposti, ma anche (si pensi al diffondersi nell’eurozona di un sordo rancore anti-tedesco) gli stessi stati europei che hanno vissuto questi sessant’anni in pace. E a tali segnali si accompagna la ricomparsa dei più cupi fantasmi (nazionalismo e populismo, xenofobia e razzismo) della modernità «avanzata». La storia del Novecento sembra ripresentarsi in blocco sulla scena, come per un brusco ritorno del rimosso. E se è naturalmente un caso che ciò avvenga a cent’anni esatti dallo scoppio della prima guerra mondiale, è vero anche che gli anniversari offrono spesso spunti istruttivi. Proviamo a vedere che cosa suggerisce questa non fausta ricorrenza.

Il Novecento è stato il secolo delle guerre mondiali. Si suole dire persino che, tra il 1914 e il ’45, il mondo ha vissuto una nuova guerra dei trent’anni. C’è del vero. L’imperialismo fu il denominatore comune dei due conflitti: il primo fu uno scontro tra imperialismi vecchi e nuovi (o potenziali) a ridosso della prima crisi globale del capitalismo; l’imperialismo costituì un fattore cruciale anche nella seconda guerra mondiale, che la Germania nazista scatenò nell’intento di dotarsi di un impero coloniale sfondando principalmente a est (e il colonialismo fu un movente essenziale della stessa alleanza con l’Italia fascista, mossa a sua volta dalla spinta all’espansione coloniale in Africa).

D’altra parte questa analogia trascura una differenza essenziale. Nel corso della grande guerra, la prima rivoluzione proletaria vincente della storia trasforma la scena politica mondiale. Definitivamente.
Oggi non abbiamo memoria dell’ondata di panico che l’ottobre bolscevico proietta sull’occidente capitalistico. Basti un dato, che raramente si ricorda: Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia e Italia contribuirono all’Armata bianca controrivoluzionaria inviando in Russia oltre 600mila uomini, al fianco dei cosacchi.

Il mondo, entrato in guerra nel 1914, ne esce trasfigurato nel ’18. Non solo sul piano «geopolitico» ma anche all’interno dei singoli paesi, teatro, tra le due guerre, di conflitti sociali che paiono mettere all’ordine del giorno, in gran parte dell’Europa, la prospettiva della rivoluzione operaia. In questo senso la seconda guerra mondiale tiene a battesimo il mondo contemporaneo, e per ciò essa è ancora un «passato che non passa». Fu un conflitto ben più complesso del precedente: non soltanto uno scontro tra stati e imperi, ma anche, esplicitamente, un urto armato tra classi sociali. La prima guerra totale della borghesia contro il proletariato, del capitalismo contro il comunismo. Il che spiega tanto l’iniziale indulgenza delle «democrazie occidentali» nei confronti dei fascismi (a cominciare dalla guerra civile spagnola), quanto la renitenza ad allearsi con l’Urss contro Hitler; le bombe atomiche americane sul Giappone; la mancata discontinuità postbellica nella costruzione delle élites politiche e degli apparati burocratici dei paesi sconfitti.

Proprio questa complessità – l’intreccio organico tra fattore militare e conflitto sociale – è la cifra del secondo dopoguerra. Che si svolge all’insegna dello scontro tra il «mondo libero» (l’economia-mondo capitalistica) e il variegato blocco socialista, interferendo pesantemente nel processo di de-colonizzazione. Più che la nuova guerra dei Trent’anni (1915-45), è dunque il sessantennio 1939-89 la fase costituente del nostro mondo. Sorto all’insegna del continuum tra conflitti militari e sociali. O, se si preferisce, sulla base dell’aperto riconoscimento della natura bellica – di guerra civile, direbbe Marx – della lotta di classe.

Poi cos’è successo? È cambiato tutto? Lo si è voluto pensare. Nelle utopie «democratiche» che prendono piede a ridosso della caduta del Muro di Berlino (e che in Italia accompagnano la liquidazione del Pci) l’89-91 doveva segnare l’avvio di un’«era globale di pace e di democrazia». Questa speranza sottende anche l’immagine hobsbawmiana del «secolo breve», ma la storia degli ultimi 25 anni la confuta, e impone di leggere anche il nostro presente in un quadro di lungo periodo. Non perché oggi il mondo sia uguale a prima. La Russia post-sovietica non ha più, nemmeno di nome, un connotato rivoluzionario. La Cina intrattiene stretti rapporti col mondo capitalistico, di cui per diversi aspetti (commercio e finanza) è parte sempre più rilevante. Il «blocco socialista» non esiste più, assorbito dalla Ue o immediatamente sussunto, attraverso la Nato, nell’orbita americana. Eppure il confine (politico, economico, persino simbolico) tra est e ovest resta cruciale. È ancora la linea lungo la quale corre più alta la tensione internazionale.

Perché le cose stiano in questi termini, nonostante la crisi del progetto rivoluzionario nei paesi del «socialismo reale», non è certo un mistero. Implosa l’Urss, l’Occidente tenta un salto di qualità nelle pratiche del dominio. Teso a superare la crisi strutturale del capitalismo che ancora imperversa (è di pochi giorni fa la notizia del pil Usa a crescita zero nel trimestre), il neoliberismo a centralità americana unifica i mercati finanziari contro le Costituzioni; rilancia la spesa militare; esaspera lo sfruttamento del lavoro vivo; smantella i sistemi pubblici di welfare, frutto della competizione col sistema socialista. Di qui l’esplosione delle sperequazioni. Di qui la deriva autoritaria, post-costituzionale. Di qui anche l’architettura tecno-oligarchica della Ue, funzionale all’instaurarsi di gerarchie continentali coincidenti con quelle vagheggiate, nella prima metà del Novecento, dai teorici della Mitteleuropa e dagli architetti del Nuovo ordine europeo.

Ma non si tratta soltanto del soft power del «libero mercato». Ancora prima della fine ufficiale dell’Urss la guerra guerreggiata torna al centro della scena internazionale, a seguito della rinnovata spinta imperialistica dell’occidente (degli Stati Uniti anche contro una parte dell’Europa) in Medio Oriente (Iraq) e in Asia centrale (Afghanistan), sino alle porte dell’ex-Urss (Georgia e paesi baltici) e della vecchia Europa (le guerre nei Balcani degli anni Novanta). È così che il mondo oggi offre un panorama per tanti aspetti simile a quello che l’ha visto nascere. Con una miscela esplosiva tra elementi del quadro 1914-38 (nazionalismi, irredentismi e populismi, soprattutto nell’Europa flagellata dalla nuova grande depressione) ed elementi del quadro 1939-89 (conflitto est-ovest, tra «occidente» capitalistico e «oriente» post-rivoluzionario). Per dirla con un paradosso, e con buona pace dei nuovismi ricorrenti, assistiamo alla lunga durata del secolo breve. Sulla base della regressione autoritaria degli Stati «democratici» e della rinnovata centralità del tema imperiale e coloniale.

Se questo è vero, non è consigliabile sottovalutare la gravità degli accadimenti ai quali assistiamo in queste settimane. L’esplosione di revanscismi razzisti e neofascisti in tutta Europa – dall’Ungheria alla Francia passando per Grecia, Finlandia e Olanda, Svezia, Austria e Polonia, per i paesi baltici e l’Italia – rivela il volto arcaico del capitalismo sfidato dalla crisi organica. La repressione delle primavere arabe, la balcanizzazione della Libia e la restaurazione del potere militare in Egitto parlano di nuovo impulso imperialistico alla ricolonizzazione del Medio Oriente. Il dramma dell’Ucraina riassume in sé e sembra riproporre tutti i motivi della tragedia novecentesca, dallo scontro tra nazionalismi etnici all’urto tra blocchi «geopolitici», alimentato in larga misura proprio dalla politica di allargamento della Nato a est. Non è consigliabile sottovalutare, e non è nemmeno ragionevole scindere processi che, pur diversi, si collegano tra loro nel contesto politico mondiale.

Due ultime considerazioni, infine, ci riguardano da vicino. Fatichiamo a vedere tutto questo perché abbiamo sacrificato gli strumenti dell’analisi storico-materialistica a una futile – e sciagurata – «modernizzazione» ideologica. A maggior ragione, non sappiamo che fare contro questa nuova corsa verso il precipizio.

Ripiegati sulle nostre cure quotidiane, siamo privi di antenne, oltre che di una direzione politica degna di questo nome. Non per questo ripeteremo quanto ebbe a dire – «ormai solo un dio ci può salvare» – un filosofo compromesso con il cuore di tenebra del secolo scorso. Ma vedere una luce alla quale fare affidamento sarà difficile finché, in Italia e in Europa, non rinascerà una seria forza di opposizione al capitalismo. Capace finalmente di preparare una transizione storica già da tempo matura.