I numeri dell’Istat ci sono piombati addosso come il consueto schiaffo in faccia: un milione e 130mila di famiglie senza reddito da lavoro, il 18,3% in più rispetto all’anno precedente, il 56 in più rispetto al 2011. Cifre impietose, almeno quanto la crisi che attanaglia il nostro Paese. Ci dicono che il sistema è impazzito, che il vecchio modello di sostenibilità economica basato sull’occupazione è andato in default e che ora – in presenza di dati così allarmanti sui livelli di impiego – precipita nel burrone della povertà anche quello che un tempo avremmo definito “ceto medio”.
Queste persone senza entrate da lavoro non hanno nulla, devono soltanto sperare di aver messo qualche soldo da parte in passato o di disporre di piccole rendite per tirare a campare. Altrimenti sono fuori gioco, spacciate. In Italia, infatti, a dispetto delle promesse dei governi che si sono succeduti dal commissariamento di Monti in poi, non si è mosso un dito per mettersi al passo con gli altri stati dell’Ue, in cui sono previste forme di reddito garantito o di cittadinanza per consentire a chi è tagliato fuori dal mercato del lavoro di continuare semplicemente a vivere in attesa di un posto di lavoro che assomiglia sempre più a un miraggio.

Nemmeno Renzi farà niente. «Non sono d’accordo», ha detto ieri. Che importa se tradisce mesi di promesse di sussidio universale, di continuità di reddito, di flessibilità tutelata, di reddito da dare a chi perde il lavoro e si ritrova a rischio povertà. «Non crea lavoro». Che importa se ci sono migliaia di lavoratori autonomi, di intermittenti che al lavoro devono rinunciarci perché in crisi di reddito. Meglio dar retta ad Alfano, a Sacconi e al dogma della precarietà senza tutele, che rischiare di allinearsi alla migliore Europa che, in verità, il reddito minimo lo prevede ovunque.
L’Italia è infatti l’unico paese nell’area Ue, insieme alla Grecia, a non contemplare alcun sussidio di questo genere. Si tratta degli Stati che più di tutti hanno sofferto l’acuirsi della crisi e l’arroganza delle politiche del rigore, e forse non è un caso che marcino in ritardo anche sul fronte dei diritti. Tutto questo mentre il Parlamento europeo, con la risoluzione del luglio 2010, ha dato disposizioni di aumentare il reddito minimo nelle nazioni dove è già in vigore. Non è elemosina, è civiltà: il reddito minimo è uno strumento di liberazione dal ricatto del mercato, un modo per dire ai cittadini europei che hanno diritto alla propria dignità anche al di fuori del paradigma economicista produci-consuma-crepa.

Le cifre dell’Istat, unite a quelle galoppanti sulla disoccupazione – soprattutto fra i giovani – sono l’ultimo campanello d’allarme: se l’Italia non si affretta a ripensare il suo modello di welfare (obsoleto, novecentesco), dando un po’ di respiro a chi arranca nella precarietà più totale, rischia una deriva da Terzo mondo. E nel frattempo perpetua una situazione di diseguaglianza imbarazzante fra cittadini, senza mobilità sociale, possibilità di crescita, uno straccio di opportunità per chi ha voglia di fare ma bussa a porte che non si aprono mai.

La Camera, poche settimane fa, ha approvato una mozione di Sel che prevede l’introduzione del reddito minimo: la proposta prevede che sia pari al 60% del reddito mediano nazionale, esattamente in linea con le direttive europee. La legge parte da un minimo di 600 euro, e secondo i nuovi dati Istat dovrebbe arrivare fino a 700 euro. Ora il governo la disattende, senza girarci troppo attorno. Perché il tempo degli annunci vale più di milioni di persone. E qualche decimale in più alle elezioni non cambierà la vita di nessuno ma farà ancora galleggiare «la maggioranza della precarietà senza fine». La precarietà degli altri, ovviamente.

*candidato L’Altra Europa con Tsipras – circoscrizione centro