Per un po’ il destino ha lanciato occhiate da un angolo all’altro di piazza Garraffello, tra una panineria che espone l’insegna «Terremoto Jek» e un locale che si chiama «Il miracolo». Alla fine il destino ha scelto, nell’ordine, sia il terremoto sia il miracolo. A Palermo, in piazza Garraffello, nel cuore del mercato della Vucciria, mercoledì sera, mentre la televisione trasmetteva in chiaro la partita di Coppa Italia Roma-Napoli, un palazzetto è venuto giù d’un sol colpo. Il calcio ci ha messo del suo per evitare una tragedia: a quell’ora, in genere, nella piazza si radunano gli avventori dei locali che vendono birra a poco pezzo. Nel fine settimana, poi, è un tappeto di giovani che si muove per tutto il mercato, da piazza Caracciolo fino al porticciolo della Cala, in un’area che custodisce le macerie della guerra e le somma a quelle dell’incuria.

07storie crollo vucciria

Del mercato che Renato Guttuso dipinse in una celebre tela, resta ben poco. Le rare bancarelle di frutta e verdura hanno normali prezzi da supermercato; ai ganci delle macellerie i quarti di bue hanno smesso di gocciolare per avvenuto dissanguamento: quelli di ieri erano gli stessi del giorno prima e vanno bene per lo scatto di qualche turista ma non per l’arrosto dei consumatori. La Vucciria vende stagionate illusioni e poca merce da mettere sotto i denti. Gli stessi negozianti sono andati a vivere altrove, niente più casa e putìa, come fino a vent’anni fa. La «riconversione» commerciale ha portato birra, a fiumi, e fatto emigrare tonni e acciughe; ha spostato in avanti le lancette dell’orologio: un tempo alla Vucciria la vita cominciava all’alba e alle otto di sera c’era il «coprifuoco». Tra i papiri della fontana del Garraffello, costruita nel 1591, restavano i resti del pesce spanciato e i torsoli dei broccoli, rimossi nottetempo dagli spazzini della municipalizzata, anch’essa fallita dopo essere caduta nella trappola della società per azioni. Il tempo ha mietuto i papiri e seccato la fontana, diventata un ricettacolo di bottiglie e bicchieri di plastica. È la movida, fenomeno che ha espulso la fruttivendola di via dell’Argenteria Nuova, la signora che vendeva cedri e che, interrogata su come le andasse la vita, rispondeva con energico pessimismo di sentirsi «una pietra in un pozzo». Si è trasferita chissà dove, e della bottega non resta più neanche il portone, ma un muro di tufo. Ha chiuso anche Fraterrigo, che sfornava pane a forma di stelle e filoni croccanti cosparsi di sesamo: cinque infornate al giorno, a cominciare dalle tre del mattino, per un secolo.

Alle otto di sera, chi si avvicina ai cinquant’anni lo ricorda, la Vucciria taceva improvvisamente, diventava il luogo dei pipistrelli, che riflettevano le loro sagome sulle basole bagnate, perché le balate della Vucciria, si dice ancora a Palermo, sapendo di mentire, non si asciugano mai.

E invece si sono asciugate da tempo e s’è «asciugata» anche la lingua dei suoi abitanti, che era allenata alla melodia barocca dei venditori, al cuntu dei pescivendoli che cantavano in falsetto i pregi della tunnina bella, perché la bontà era ben poca cosa senza un riferimento estetico.

Mercoledì è toccato a un altro pezzo della Vucciria pagare il proprio tributo all’incuria. Ma dopo ogni pioggia c’è un rudere della vecchia città che va giù: nei mercati storici di Ballarò e del Capo, o nei quartieri popolari. E succede da anni. Il Comune ha censito 1.500 edifici a rischio crollo in quello che è ritenuto il più grande centro storico d’Europa.

A piazza Garraffello il venditore di bibite e panini, che con il suo camioncino aveva trovato posto sotto le mura del palazzetto crollato, ha ancora le gambe tremanti. Gli resta qualche fotografia, con il camiciotto bianco, ritratto mentre sparge un po’ di ketchup in un panino al cartoccio. Ai turisti restano le immagini di quell’edificio che da anni era diventato il laboratorio di un artista austriaco, Uwe Jaentsch, che realizzava le sue installazioni su quello che rimaneva di muri e solai, servendosi degli oggetti lasciati da chi abitava quegli appartamenti: pezzi di mobilio, vestiti, giocattoli, sanitari, bidoni d’olio, utensili da cucina.

Ma gli edifici che danno sulla piazza sono tutti lì lì per crollare, ad eccezione di uno, che sembra solido grazie a un laborioso restauro che va avanti da trent’anni e che è «puntellato» con tenacia dai pochi inquilini che hanno deciso di viverci, nonostante tutto.

Accanto alle macerie, al di qua delle transenne, nel magazzinetto di un fruttivendolo la vita continua. Alle tre del pomeriggio un canuto signore mangia una minestra affondando il cucchiaio in una zuppiera fumante, come ogni giorno. Ogni tanto solleva la testa è dà del cornuto a qualcuno: politici, amministratori e chi più ne ha più ne metta. Non pronuncia il nome dei sindaco Leoluca Orlando, di cui conserva una foto di qualche anno fa appesa allo sportello del frigorifero. Si vede un Orlando giovane che mangia a una bancarella della Vucciria, circondato da altre persone e da un suo ex assessore. Quando gli occhi del cronista indugiano su quell’immagine, alle spalle si sente un commento: «Ci ha fottuti pure lui», seguito da un rassicurante: «Non è successo niente. Lo sapevamo che sarebbe caduto, era questione di tempo. Ora cadrà pure il palazzetto accanto», che è proprio quello che abbiamo davanti: una facciata piena di crepe, una finestra impolverata e socchiusa, sopra l’insegna del locale «Il miracolo», food and drink.

Venticinque anni fa, nel tempo della Primavera orlandiana, sembrava che Palermo potesse finalmente sanare le ferite della guerra. L’amministrazione approvò un Piano particolareggiato del centro storico, il cosiddetto Ppe. Si dissertò a lungo sul tipo di interventi, optando per una scelta conservativa, per il ripristino filologico delle abitazioni. Regole severe erano necessarie, si disse, per evitare il rischio di speculazioni. Con enorme lentezza cominciarono i primi interventi, a macchia di leopardo. Il risultato fu che in mezzo alle macerie spuntavano edifici restaurati, avviando una lotta impari tra «civiltà» e degrado. Per dieci anni i prezzi nel centro storico andarono alle stelle, gli abitanti che per quarant’anni avevano resistito nella loro «Saigon» furono costretti a sloggiare e trasferirsi nelle periferie dove altri edifici venivano costruiti alla buona, portando cemento nei pochi spazi verdi rimasti. Il centro cominciò a ripopolarsi, ma da sette, otto anni si sta verificando il fenomeno inverso: i centro-storicisti hanno staccano il biglietto di ritorno. Non siamo all’esodo, ma il rischio esiste.

Nel dopoguerra nel centro storico vivevano 120 mila persone, con gli anni del sacco edilizio di Lima e Ciancimino la città vecchia si spopolò, fino ad arrivare a 30 mila abitanti. Il fantasma di una nuova desertificazione è concreto e l’amministrazione sembra non avere idee. La nuova mission, dopo anni d’anarchia, pare improntata all’ordine e alla disciplina. Il Comune ha dichiarato guerra ai gazebo dei locali: tutti giù, tutti da smontare, anche quelli che hanno avuto regolari concessioni, in attesa di una nuova pianificazione. Gli unici a non correre rischi di smantellamento sembrano proprio gli abusivi, che esistono nella realtà ma non sulla carta. E quel che conta è la carta.