Ricordate quando avviene il primo attacco di massa degli Uccelli di Hitchcock? Durante la festa per gli 11 anni di Cathy Brenner. Obiettivo: i bambini. Dunque i corpi destinati al futuro, il frutto della generazione, la riproduzione sociale. Bogeda Bay è la festa del queer nero. Fugge sconvolta, nella scena finale e in decapottabile sportiva, una famiglia perbene, in divenire ma già modellata: Mitch Brenner, l’avvocato scapolo (e non proprio macho), l’avvenente e seduttiva Melanie Daniels, la piccola Cathy. Fuggono, mentre corvi e gabbiani in massa li osservano, lasciandoci intuire che non se ne andranno facilmente. La catastrofe è solo all’inizio.

La scena è una delle Apocalissi queer citate da Lorenzo Bernini nell’omonimo volume appena uscito per Ets (pp. 235, euro 22). Ricercatore di filosofia politica all’Università di Verona, coordina con Adriana Cavarero il centro di ricerche Politesse, su politiche e teorie della sessualità.

Qualunque cosa possano evocarci gli Uccelli di Hitchcock o gli zombie gay di Bruce LaBruce, permane comunque un di più di perturbante, di ruvido, di desolante per il nostro orizzonte identitario. Echi di un terremoto dell’ordine costituito, esplicite narrazioni anti-sociali, squadernamenti di un maschile che resta un grumo di tabù, rovesciamenti del perbenismo omosessuale: le riflessioni di Leo Bersani e Lee Edelman (che discutono con Freud, Lacan e Laplanche, Proust, Gide e Genet, Guy Hocquenghem e Mario Mieli) approdano in Italia annunciando molto rumore.

Nel paese dei paradossi, fanalino di coda nel campo dei diritti civili, si assiste negli ultimi anni a un gran ribollire di studi queer, per di più con un ritardo ventennale. Un vivaio di ricerche e pubblicazioni che dà fiato ad un intero filone anti-identitario e nel mentre gay e lesbiche rimarcano il loro status di consumatori perbene, corrono a sposarsi, issano i loro figli come bandiere e santini. In altre parole, delimitano nuovi perimetri di rispettabilità e di inclusione, nonostante qualsiasi rivendicazione finisca sedata nell’arena politica.

Del queer c’è chi tenta di estrarre l’ennesima escrescenza identitaria, da aggiungere in consonante «q» all’ormai senile acronimo Lgbt. Altri invece evocano Judith Butler come oracolo à la page. Nel libro di Bernini, invece, ci si immerge nei cunicoli più reconditi del queer, alla ricerca delle tracce più spaventevoli e rivoltose della fisiologia identitaria. «Né Bersani né Edelman contestano la necessità di lottare per i diritti delle minoranze sessuali – sottolinea l’autore – Ma avvertono che la sfera di cittadinanza, più che universale, si è fatta universalmente omologante».

Cosa contestano dunque questi pensatori antisociali?

Contestano chi agita la retorica del familismo gay, chi rivendica soltanto i «diritti della coppia» e fa scomparire le singolarità, chi parla di gay pensandoli solo come possibili padri e mariti. La loro è una critica spietata alla omo-normatività, non solo alla etero-normatività, come se questa avesse riprodotto la prima.

Per far questo vanno ad investigare i lati più in ombra delle identità «omosessuali»?

Partono dal fatto che i gay da sempre vengono mostrificati, marchiati come antisociali, in quanto sterili perché «il loro retto è una tomba» per dirla con Leo Bersani, che infatti rilancia: il riscatto può passare proprio attraverso l’assunzione di quel marchio infame. Non generiamo? Certo. C’è chi non vuole generare, non vuole riprodursi, non vuole partecipare all’adorazione dell’icona salvifica del bambino. D’altra parte, come ha chiesto Beatriz Preciado su Libération: «chi difende il bambino queer?». Le teorie queer antisociali invitano a liberarci dall’ossessione del «futurismo riproduttivo». E ancora: Hocquengem riprende la famosa «fase anale» di freudiana letteratura per rivoltargliela contro. Coglie gli assiomi della psicoanalisi per confermarli provocatoriamente dal punto di vista identitario. Osanna la «negatività sessuale» dell’omosessuale».

Perché, dunque, Bersani e Edelman criticano apertamente Foucault e Butler?

Considerano la loro visione rassicurante e politicamente corretta. Per loro Foucault desessualizza il discorso sulla sessualità e trasforma il soggetto sessuale in un soggetto «solo» politico, per di più di stampo liberale, alla ricerca del proprio utile e del proprio piacere. Butler perché desessualizza il genere nella sua teoria performativa.

Ma loro contestano la dinamica performativa nella costruzione identitaria?

No, ma non sono disposti a tacere sul lato perturbante del sessuale: la «pulsione» che disturba il soggetto, che addirittura ne decreta la morte nella forma di perdita del controllo su se stesso e sul mondo. In questo senso, rivendicano una visione politicamente scorretta del rapporto anale come passività radicale e masochismo, come perdita di potere e antidoto alla violenza. Rivendicano la negatività, la solitudine e l’anti-socialità del soggetto omosessuale come sfide alla concezione liberale della soggettività.

Questo non significa ripiegarsi nella rinuncia di trasformare il mondo?

Al contrario, io colgo in questo, nonostante le tante contraddizioni di cui parlo nel libro, un invito a costruire comunità altre, intessute di legami effimeri e potenti, capaci di trasformare la realtà qui e ora, senza pensare ad un soggetto collettivo votato al progresso. Il che riprende molto le esperienze degli anni ’70 dei movimenti libertari, a cominciare dal Fhar in Francia e dal Fuori in Italia.

Inoltre, queste teorie antisociali possono aiutare chi si sente schiacciato dall’omofobia, invitandolo a sottrarsi allo sguardo feroce dell’altro, a rivendicare la negatività di cui gli omofobi ci marchiano.

Intanto si riscopre la ferramenta culturale dei classici della psicoanalisi…

Dopo la grande ondata decostruzionista, in tutte le discipline filosofiche si assiste ad un ritorno all’ontologia, alla ricerca di fondamenti. Così nelle culture queer si ritorna alla psicoanalisi e al marxismo, anche se il rischio è di farne un uso dogmatico perché si finisce per utilizzarli soltanto come depositi di verità sull’umano. Mentre noi oggi sappiamo di quanti altri approcci – molto più vitali – siano ricchi i nostri giacimenti culturali, a partire dalla filosofia.

Colpisce che questi autori siano concentrati sul «maschile». Non è un tornare indietro rispetto alle riflessioni sulle identità queer?

Questo può sembrare un limite, ma è un valore. Negli Stati Uniti si ragiona ora sulla fine del queer e si tenta di percorrere nuovi sentieri come gli straordinari «archivi affettivi». Ma in Europa e in Italia, a fronte dell’uso massiccio delle teorie queer da parte del lesbo-femminismo, manca una filiera queer sulla maschilità e in particolare sulla msachilità gay. E in questo senso Bersani ed Edelman possono esserci molto utili.

Che impatto può avere l’irruzione del pensiero queer in un paese così arretrato come l’Italia?

Il queer ha il profilo di un significante fluttuante e può essere declinato in tanti modi contro l’omofobia e l’omo-normatività. Usato come lente nel nostro orizzonte culturale e politico potrebbe sortire molti effetti. Penso al recupero della nostra storia prima dell’avvento degli «omosessuali moderni». La tradizione dei femminielli napoletani, ad esempio, come residuo della transessualità. Oppure alla radicalità del pensiero di Mario Mieli. Penso al concetto di «sessualità mediterranea», ambigua, spuria e funzionale, raccontata così bene dai cronisti del Grand Tour. Insomma: nella periferia dell’impero, il queer potrebbe rivelarsi deflagrante per il nostro modo di essere gay.