La discussione sulla crisi della «forma partito» dura da qualche decennio. Con il riflusso degli anni Ottanta scoprimmo che non funzionava più, né nel modello leninista d’avanguardia né in quello di «partito nuovo, di massa» di Togliatti. Il manifesto pubblicò già sul mensile del settembre 1969 un’inchiesta a firma di Lucio Magri e Filippo Maone che lanciava l’allarme sullo stato di salute del Pci e sulla necessità di connetterlo a lavoro e società).

La questione non è stata risolta neppure dai gruppi della nuova sinistra post ‘68, spesso nuclei inossidabili (Potere operaio) o puramente movimentisti (Lotta continua). L’idea di unificare la nuova sinistra in un partito unico non è mai decollata, come neppure quella di una forza alternativa al Pci di un qualche peso e dimensione. Lo stesso manifesto ha depositato al riguardo riflessioni sul merito di grande interesse fin dal primo numero del mensile nel giugno 1969 (l’intervista di Rossana Rossanda a Jean-Paul Sartre), cui seguirono saggi teorici ed esperienze nella ricerca di una strategia consigliare che guardava ad Antonio Gramsci e al socialismo dell’autogestione, ma poca pratica politica.

La crisi non è stata risolta dopo la dissoluzione del Pci, quando nel 1991 mosse i primi passi Rifondazione comunista. Di quella esperienza ci sono tracce del percorso iniziale (Garavini, Cossutta, Magri, altri) e poi di quello consolidatosi con la segreteria di Fausto Bertinotti con sforzi di innovazione politica ma non organizzativi. C’è stata infatti in Rifondazione assai poca innovazione sul tema della «forma partito», se non nel suo essere più aperto del passato nei rapporti con i movimenti (l’esperienza di Genova 2001 e dei no global). Come ci si organizza sul territorio e sul lavoro, come si partecipa alle decisioni, come si coabita in un comune luogo politico in modo plurale e organizzato sono questioni appena sfiorate da quella esperienza rifondativa.

Sul versante del Pds-Pd la consapevolezza della questione ha portato verso lidi ancora maggiormente fragili e velleitari: partito «leggero» senza sezioni territoriali e con Circoli, «primarie» come metodo nelle decisioni in cui hanno fatto finito per fare breccia personalizzazione della politica e gruppi di pressione senza neppure copiare fino il fondo le primarie del Partito democratico statunitense dove votano gli iscritti e non anche i semplici elettori. Insomma, si brancola nel buio quando si affronta la discussione sul «partito».

Se un «partito» a sinistra non c’è, non è quindi un caso. Vorrei dirlo ad Alfonso Gianni, Aldo Carra, ai tanti amici e compagni che sulle pagine del manifesto sollecitano periodicamente a porsi il rovello di una organizzazione partitica. Questa assenza non è frutto del destino cinico e baro. Bensì della mutata composizione di classe della società, delle forme digitali della comunicazione e delle tecnologie, del mutato ruolo di identità e ideologie, della crisi dell’organizzazione novecentesca in partito e altro ancora.

Un nuovo partito deve fare i conti con tutto ciò che abbiamo alle spalle. Servono, di conseguenza, sperimentazione e fantasia politico/organizzativa ammettendo che il quesito non può avere risposte prefabbricate e già fallite. Si può partire, in un inedito itinerario, per esempio dall’inventario di forme sperimentate negli ultimi anni: rete per temi omogenei, uso di internet, parzialità organizzative, nuova geografia degli interessi sociali e individuali da rappresentare (il femminismo ha prodotto tante novità in questo campo su cui riflettere), confederazione di esperienze e di soggetti diversi.

In tale riflessione resta tuttora affascinante l’idea gramsciana di «partito intellettuale collettivo» e «moderno principe» che ha il compito di indicare la rotta e di unificare in un progetto/programma gli input provenienti da movimenti e aggregazioni sociali. Questo «partito» con una sua cultura specifica che pensa alla trasformazione sociale come a un processo di «case matte» da conquistare è quello che ci manca.

Oggi, invece, la maggioranza di noi – nonostante Sinistra italiana, Articolo Uno, eccetera – è senza casa politica. Chiedersi perché è un cruccio da affrontare. Se la trovassimo, e nel nome avesse qualche riferimento a ecologia e nuovo socialismo, non sarebbe male.