«Hello, dictator!» Con queste parole bonarie, il 22 maggio 2015, il presidente della Commissione europea accoglieva il Primo ministro ungherese al summit di Riga. Qualche mese prima, il senatore John McCain qualificando Viktor Orbàn di «dittatore neofascista» aveva provocato un incidente diplomatico. Ma Jean-Claude Juncker aveva ripreso quelle parole con fare birichino e lo interpellava con un buffetto affettuoso sulla guancia. Il contrasto con i diktat imposti in quello stesso momento alla Grecia dall’Eurogruppo era sorprendente: l’atmosfera era tutt’altro che scherzosa. Per Wolfgang Schaüble, ministro delle finanze tedesco, gli Stati hanno degli impegni, e «nuove elezioni non cambiano di certo la situazione». In Europa, non si scherza con il neoliberismo: l’economia è una cosa troppo grave per affidarla ai popoli. Sulla democrazia, invece, si può ridere e scherzare. La farsa a cui si è assistito in Lettonia ne ricorda un’altra. Ne Il grande dittatore di Chaplin, Mussolini saluta Hitler con una spinta: «mio fratello dittatore!»».

Come leggere insieme l’ascesa delle estreme destre e la deriva autoritaria del neoliberismo? Da un lato, c’è il suprematismo bianco, con l’elezione di Donald Trump, e, in Europa, la xenofobia di un Orbàn o di un Salvini; dall’altro, ciò che potremmo chiamare dei colpi di Stato democratici: non c’è bisogno di mandare l’esercito contro la Grecia («banche, non carri armati»), e nemmeno in Brasile (voto parlamentare e non golpe militare). Le libertà pubbliche diminuiscono in entrambi i casi. Di fatto, i due fenomeni non hanno nulla di incompatibile. L’Europa ha lasciato che l’estrema destra si accomodasse al potere: nel 2000, l’Austria di Jorg Haider veniva sanzionata; nel 2018, quest’ultima ne assumeva la presidenza con Sebastian Kurz.

L’Unione non esita peraltro a subappaltare la gestione dei migranti alla Turchia, e a chiudere un occhio sulla deriva dittatoriale del regime di Recep Tayyip Erdoğan – senza parlare degli accordi con la mafiosa Libia. E se Emmanuel Macron considera che Trump, rinunciando a separare i migranti dai loro figli, abbia preso «la decisione giusta», è chiaro che, d’ora in poi, gli Stati-Uniti seguiranno l’esempio francese… rinchiudendoli insieme. Il presidente francese può anche denunciare l’arrivo della Lega al potere come «la crescita di una lebbra»; ma alla frontiera franco-italiana, così come nel Mediterraneo, le milizie di Generazione identitaria agiscono illegalmente senza essere indagati dalle autorità. Allo stesso tempo, la giustizia francese reprime le manifestazioni di protesta contro questi atti di forza. E l’Italia diretta dal Partito Democratico, d’altro canto, già nel 2017, intentava delle azioni contro le ONG che salvano i migranti in mare.

Al fianco di Pedro Sanchez, il capo del governo spagnolo che ha accolto l’Aquarius, Emmanuel Macron propone seriamente delle «sanzioni in caso di non-solidarietà»… come se la Francia i cui porti, dopo quelli italiani, sono i più vicini, non fosse la prima interessata. Poco dopo, lo stesso Macron fa suo il discorso di Matteo Salvini sulle Ong accusate di «fare il gioco dei trafficanti». Nonostante i bei discorsi, la «tentazione illiberale» non è più riservata all’estrema destra eurofoba, ma riguarda anche i dirigenti eurofili. Macron incarna alla perfezione questo neoliberismo illiberale che pretende di salvarci dall’estrema destra imitando le sue politiche.

Come definire questa «lebbra»? Evocare il «momento populista» non è sufficiente. Chantal Mouffe si rifiuta di parlare di estrema destra e preferisce l’espressione «populismo di destra», perché auspica un «populismo di sinistra»: i due, secondo la filosofa, avrebbero in comune «un nucleo democratico», nella misura in cui darebbero voce alle richieste delle «categorie popolari», ossia dei «perdenti della globalizzazione neoliberale», rispondendovi in maniera certamente diversa. Ora, non solo i dirigenti neoliberali non esitano a mobilitare un populismo xenofobo, ma i leader populisti, da Trump a Orbán, passando da Erdoğan, promuovono anche politiche neoliberali. È dunque piuttosto azzardato attribuire al voto per questi ultimi «l’espressione di resistenze alla condizione post-democratica generata da trent’anni di egemonia neoliberale».

Non sarebbe perciò più appropriato parlare di un «momento neofascista»? Come nel fascismo storico, si ritrovano in effetti oggi il razzismo e la xenofobia, la dissoluzione dei confini tra destra e sinistra, il culto di leader carismatici e la celebrazione della nazione, l’odio delle élites e l’esaltazione del popolo, il disprezzo per lo Stato di diritto e l’apologia della violenza, ecc. Dopo l’elezione di Donald Trump, il filosofo Cornel West ha denunciato la responsabilità delle politiche economiche difese dai Clinton e da Obama: «negli Stati-Uniti, l’era neoliberale si è appena conclusa con un’esplosione neofascista». In seguito, è poi divenuto evidente come la seconda non abbia distrutto la prima.

Dovremmo, forse, privilegiare, con Wendy Brown, la lettura neoliberale e rifiutare il paragone storico con il fascismo? Per questa politologa, che analizza la «rivoluzione furtiva» di un neoliberismo in grado di «disfare il demos», «malgrado alcuni echi degli anni 1930», con Trump, la combinazione paradossale dello «statismo» e della «deregolamentazione», ossia un «autoritarismo libertario», diviene una forma politica nuova, «effetto collaterale della razionalità neoliberale»; non è dunque possibile ridurla alle vecchie figure del fascismo e del populismo. La sua critica rimanda a quella di Robert Paxton: se è vero che è possibile riconoscere in questo presidente «diversi tratti tipicamente fascisti», per lo storico di Vichy, «l’etichetta “fascista” occulta il libertarismo economico e sociale di Trump».

Tuttavia, non è proprio la caratteristica di un concetto o di un ideal-tipo weberiano raggruppare sotto uno stesso cappello esempi legati a contesti storici diversi? Ciò è vero tanto per il fascismo quanto per il populismo – o per il neoliberismo. Come sottolinea Wendy Brown, il protezionismo di Trump non è altro che una declinazione nuova di quest’ultimo, mentre l’ordoliberalismo tedesco ne è una variante, che non si confonde peraltro con l’ideologia del Fmi: è possibile analizzare il neoliberismo in tutte le sue forme. Allo stesso modo, si parlerà di neofascismo, ossia di un modo di pensare storicamente specifico di questo momento fascista del neoliberismo.

Questo non significa che, nei suoi stessi principi, il neoliberismo sia condannato al fascismo; ma nemmeno che il neoliberismo sia votato alla democrazia, nel senso in cui la si intendeva dopo la Caduta del Muro di Berlino. Tuttavia, i dirigenti che hanno convertito la socialdemocrazia al neoliberismo in Europa, Tony Blair e José Luis Zapatero, lungi dal cavalcare l’onda xenofoba, hanno rivendicato l’apertura dei loro paesi ai migranti economici. Per quanto riguarda la cancelliera tedesca «Kaiser Merkel», qualche mese appena dopo la «crisi greca», e durante la «crisi dei rifugiati» del 2015, è diventata «Mutti Angela». Ma questi due momenti appartengono al passato.

È importante oggi chiamare le cose con il loro nome: rifiutare di nominare questo neofascismo autorizza a non far nulla. I rigorosi scrupoli intellettuali di alcuni finiscono per servire da pretesto alla molle viltà politica di molti. Gli eufemismi impediscono la mobilitazione di un antifascismo che, lungi dall’essere la cauzione democratica delle politiche economiche attuali, riconosce la responsabilità del neoliberismo nell’ascesa del neofascismo: non bisogna dunque lasciarsi ingannare dall’illusione che il populismo, che ne è un sintomo, possa esserne il rimedio. Insomma, cantare Bella Ciao non ha nulla di anacronistico – non solo contro Matteo Salvini o contro il suo predecessore «democratico» agli Interni, Marco Minniti, ma anche contro il suo omologo Gérard Collomb, il Ministro dell’Interno francese, anche se quest’ultimo è «un po’ stufo di passare per il fascio di turno».

(Traduzione dal francese di Massimo Prearo)

 

Il sociologo Eric Fassin

 

Uno studioso delle trasformazioni sociali

Tra i più noti sociologi francesi, docente all’Università Paris-8 Saint Denis-Vincennes, e impegnato in prima persona in molte battaglie civili, Éric Fassin è autore di testi importanti dedicati alle tematiche di genere, al razzismo e all’emergere delle nuove discriminazioni in seno alla società transalpina. Tra le sue opere: «De la question sociale à la question raciale?» (2006), «Discriminations» (2008), «Reproduire le genre» (2010), «Roms & riverains» (2014), fino a «Populisme: le grand ressentiment» (2017), di prossima pubblicazione per la manifesto libri.