Care lettrici, cari lettori,

molti di voi, sicuramente i più pazienti, hanno letto negli ultimi tempi molti articoli sulle recenti vicissitudini del manifesto. Sanno bene quante volte abbiamo già replicato, punto su punto, alle gravi accuse che ci vengono mosse, quante volte abbiamo chiesto pubblicamente (ma lo abbiamo fatto anche privatamente) ai fondatori e agli altri di essere con noi nella battaglia per la nuova vita del giornale. Compagne e compagni che hanno sempre scritto in prima pagina, commenti e opinioni, senza se e senza ma, fino al giorno in cui hanno deciso di andar via.

Torniamo a scriverne perché ci vengono contestate scelte e comportamenti che non ci appartengono.

Non c’è una minoranza (o una singola persona) che ha “cacciato” o “ucciso” (che brutte metafore) una maggioranza. Dell’opera di pensionati e prepensionati sono ricche le pagine del manifesto, oggi come ieri.

Nei quarant’anni della nostra storia, è sempre accaduto che singoli o gruppi entrassero o uscissero dal giornale nelle diverse fasi politiche. È accaduto perfino ai fondatori. E Rossana su Repubblica ha avuto l’onestà politica di riconoscerlo.

Anche in questo caso, soprattutto in questo caso, lo ribadiamo, alla maggior parte di coloro che hanno deciso di lasciare il giornale, è stato chiesto ripetutamente, con editoriali in prima pagina, incontri personali, lettere private e risposte pubbliche, di essere insieme nella nuova impresa. Purché se ne condividano però le regole di fondo. Che sono una democrazia interna integrale e l’uguaglianza di tutti i soci della cooperativa.

Non è vero che l’assemblea del manifesto ha smesso di esistere. Al contrario, dall’estate scorsa a fine anno, è stata l’unico organismo di vita interna del giornale, commissariato in tutto il resto dai liquidatori.

È in quel momento, da quel momento, che alcuni di noi si sono allontanati definitivamente. Come se la scomparsa dei vecchi equilibri spaventasse di più della costruzione dei nuovi.

Le direzioni del giornale si sono succedute negli anni con regolarità. Poche di queste hanno risolto o aggravato, da sole, i destini del giornale.

Il giornale non vive per noi né tra di noi. Vive per chi lo legge. È questo uno dei fili conduttori del nostro dissenso di fondo. Non abbiamo mai pensato a una resa dei conti interna. Né escluso i circoli dal nostro destino, semplicemente non eravamo d’accordo che diventassero i proprietari del giornale.

Nello scontro politico sulla proprietà del giornale (perché soprattutto di questo si è trattato), la maggior parte di noi ha deciso che dovesse tornare, nei tempi e nei modi in cui questo sarà possibile, una proprietà collettiva. E né un editore privato temporaneo (che al contrario della propaganda forsennata di cui siamo stati oggetto non abbiamo mai né voluto né cercato e infatti non c’è), né un’associazione privata di lettori (tutta da verificare), ci sembrano garantire questo risultato.

Lo statuto della nuova cooperativa è identico a quello precedente. A tutti i soci, anche coloro che oggi scrivono parole di fuoco, è stato chiesto di restare a fare parte del collettivo. Qualcuno è qui, altri stanno percorrendo strade diverse e a tutti siamo vicini rispettando le differenze.

Cercare alibi e responsabilità di qualche matrigna è un atteggiamento infantile da qualunque parte provenga.

Il manifesto vive, libero e fragile come sempre. Resuscitato a stento dalla liquidazione coatta amministrativa che chi ci critica rimuove e non nomina mai, anche se quasi tutti, a cominciare dal vecchio cda fino all’ultimo dei soci, l’abbiamo considerata come l’unica strada praticabile per chiudere dignitosamente i conti, almeno sul piano economico.

Consideriamo l’uscita dalla liquidazione un rilancio, non una chiusura (come pure alcuni avevano chiesto e messo ai voti).

È faticoso mandare queste pagine in edicola e nella rete. Tanto più oggi, nella «peggiore crisi dal ’29» e nella rivoluzione digitale che sta travolgendo tutte le forme dell’editoria. Tanto più oggi con la sinistra italiana, politica e sociale, al suo minimo storico.

Eppure il manifesto esiste ancora. Come forma originale della politica, costretto a misurarsi ogni giorno con la realtà.

La discussione si fa tutti i giorni, con fatica. Le forze, anche fisiche, sono ridotte all’osso.

La situazione è drammatica, difficile certo, anche perché in un momento di crisi così dura, non possiamo chiedere a cuor leggero un sostegno economico ai nostri lettori.

Infine vorremmo che la discussione fosse finalmente su questioni di contenuto politico, e così metter fine a improbabili «complotti» che non fanno onore a chi li immagina.

Accettiamo le critiche, anche dure, sul modo di fare il giornale, su quello che scriviamo, sulle analisi e le opinioni che pubblichiamo. E saremo felici di tornare a discuterne. Pur nel solco della nostra storia comune, la prospettiva politica, culturale, giornalistica è cambiata, si pongono nuove domande rispetto alla situazione sociale, economica, nazionale e internazionale. E in questo nostro rinnovamento, accanto ai collaboratori storici, se ne sono aggiunti nuovi e importanti, animatori di un dibattito plurale nella disorientata comunità della sinistra. Ed è questo il livello che auspichiamo e ci aspettiamo.

Distribuire colpe e meriti non è difficile. È inutile. È una storia consegnata agli archivi del giornale, oggi ancora in mano ai liquidatori e domani a chissà chi altro.

È una pagina politica brutta e conclusa, che può ripetersi solo in farsa e che non riapriremo.

Di fronte a noi c’è la sfida più grande. L’ultima curva e la più difficile: il riacquisto della testata e la conclusione, in positivo, di un fallimento collettivo che ci ha coinvolto tutti.

Il giornale è qui, pubblico, un atto quotidiano che non solo spiega la realtà ma la piega seguendo un’intenzione.

Guardiamo avanti. Nella consapevolezza che siamo nani sulle spalle di giganti ma che proprio per questo, potremo vedere più lontano di loro.