Interrogare un lessico politico non è mai impresa semplice. Ecco perché bisogna partire dalle parole stesse, pensarle e posizionarle dinanzi agli occhi, possibilmente spalancati, per seguirne il segno. In prima battuta, le parole che raccontano la contemporaneità si configurano – tra divenire e sclerosi – su due piani specifici, il primo è quello della loro stessa stratificazione semantica, il secondo è lo spazio pubblico in cui si inseriscono, un ordine del discorso condizionato dal paradigma postfordista e dalle politiche neoliberali e neoliberiste.

Ne sono convinti Lorenzo Coccoli, Marco Tabacchini e Federico Zappino che curano il volume Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti (Mimesis, pp. 276, euro 22). Il titolo è già un manifesto di intenti; si tratta di un’indagine accurata su concetti chiave scelti come i più adeguati a cartografare il presente; per prendere parola su di esso bisogna comprendere come il lessico politico può arrivare al cortocircuito in ragione di una sua maldestra collocazione. Il volume tuttavia si pone come rilancio, «una postura che tenti innanzitutto di portare un contributo all’esigenza, in questo momento particolarmente diffusa, di strumenti di comprensione che siano al contempo strumenti di lotta».

Il metodo utilizzato è quello della lezione di Foucault lettore di Nietzsche. Genealogia critica che merita attenzione perché in grado di misurarsi con tempi interessanti di maledizione e augurio; marcati da un frastuono di fondo – quasi un ronzio insopportabile – di parole spesso mutilate in nome della litania della fine delle ideologie, triturate dalla logica neoliberale che svuota, manipola e riconsegna qualcosa di apparentemente adatto ai tempi ma non alle esistenze che li abitano. Tempi simili tuttavia possiedono la forza per l’agire fino a diventare elemento di trasformazione. Come riferiscono i curatori «anche il disordine e lo spaesamento, per quanto possa sembrare paradossale, devono essere decostruiti». A fare da contrappunto è l’elaborazione grafica in copertina di Stefano Campus, che nomina l’esperienza dello spazio occupato dell’Ex-Q di Sassari.

Ontologia della precarietà

Sta all’altezza di questa necessità di chiarezza il contributo di Cristina Morini che cura il concetto di Precarietà. Si deve tener conto che, in quanto normante, l’instabilità con cui si vorrebbe connotare la precarietà stride con una certa rigidità che investe non solo le condizioni di lavoro ma le stesse vite mostrando una inflessibile flessibilità. In questa ontologia della precarietà secondo Morini diventano determinanti tre elementi : il tempo, i corpi e la soggettivazione. L’uscita dall’incubo della condizione precaria è nel conflitto contro il capitale, nelle forme di autorganizzazione, nella riappropriazione diretta di reddito. Uno scenario che si intreccia alla liturgia del Sacrificio, esposta da Marianna Esposito. Nella retorica neoliberale in cui ne va della nuda vita la pretesa di rinuncia è infatti «a garanzia della libertà di impresa che in un circolo vizioso imprigiona e svuota la vita del soggetto». Se il postfordismo ha eroso i fondamenti dell’antica costituzionalizzazione del lavoro, spingendosi nelle maglie del concetto di Costituzione curata da Adalgiso Amendola, ci rendiamo ben conto che il mutamento radicale delle soggettività si configura – all’interno dello stesso processo di decostituzionalizzazione – come capacità di eccedere le strutture delle mediazioni tradizionali. In questa direzione si muovono soprattutto i nuovi movimenti sociali. Anche qui, la stratificazione genealogica si gioca con l’imprevisto di corpi e pratiche e dei nuovi processi costituenti come quelli in America Latina. È pur vero che soggettività eccentriche e impreviste hanno già rotto questo processo; Amendola cita in proposito il femminismo e ha ragione di farlo. L’Eccellenza setacciata da Federica Giardini si lega giustappunto alla distinzione e alla differenza. Bisogna infatti disporsi all’interno di una narrazione che tenga conto della sua «condizione diffusa che nell’esprimere singolarità rimette in circolo effetti di potenziamento». La via sembra quella di concentrarsi sui corpi indocili di cui parla Lorenzo Bernini circa il Futuro, «refrattari a ogni disciplina, che alla ragione contrappongono un’ostinata irragionevolezza».

Il rischio di avere tutto in chiaro apre alla «tirannia della luce», come scrive Valeria Pinto. Nella spettrale messa in scena della Democrazia, perlustrata finemente da Laura Bazzicalupo, secondo Pinto «la trasparenza è insomma trasparenza in vista dell’efficacia dei mercati finanziari, dove le macchine vendono e acquistano (…) quote di fiducia e di incertezza».

Verrebbe da chiedersi, pur nella semantica proposta da Maurizio Ricciardi sul concetto di Società, tesa tra potere, ordine e dominio, dove sta il Popolo, quella figura che, per Pierandrea Amato, manca? È davvero «il nome di una bancarotta»? E come posizionarlo nell’antitesi Destra/Sinistra, presentata da Francesco Remotti? Nuovi laboratori di riscritture dal basso si rintracciano nelle pratiche dei beni comuni in opposizione alle retoriche sul Bene comune, concetto curato da Maria Rosa Marella. Nella contrapposizione tra privato e pubblico, per Marella il conflitto cambia di registro nel momento in cui è la stessa proprietà a essere investita. Disarticolarla, infine, è l’orizzonte tangibile con cui ci si deve misurare. Le soggettività in campo si nominano anche attraverso la relazione con la Governabilità. Secondo Sandro Chignola vi è infatti una resistenza irriducibile che qualifica l’ingovernabile. Marco Tabacchini si interroga sul concetto di Movimento, laddove «questo non è niente più che un’efficace protesi esistenziale per presenze in preda alla crisi». Allora bisogna disfare anche le voci di Legalità, descritta da Ugo Mattei e Michele Spanò, e quella di Eguaglianza (Gianfranco Zanetti).

Un problema di pratiche

Insieme alla Povertà, curata da Lorenzo Coccoli, vengono individuate come tensioni materiali e consistenti per una ipotetica, e per niente utopica, trasformazione. Pure in un tempo in cui inneggia la retorica della Crisi, voce curata da Federico Zappino. Nonostante il punto sulla Responsabilità, indagata molto bene da Bruna Giacomini, Zappino si domanda se i viventi «possono ancora immaginare (…) cosa accadrebbe se abbastanza soggetti produttivi cessassero di produrre, se abbastanza soggetti debitori si dessero, all’improvviso, all’insolvenza».

Ciascuna delle voci di Genealogie del presente si pone già in un orizzonte relazionale, moltiplicando così le mappature politiche contemporanee. La posta in gioco è quella di individuarne i legami, per illuminare pratiche, parole e corpi che esorbitano dal contesto di seconda mano in cui le si vorrebbe veicolare. In questo senso, il volume è un ottimo punto di partenza.