Le trasformazioni del presente, quando hanno carattere strutturale e non semplicemente congiunturale, impongono di riconsiderare le letture del passato. Non solo in quanto, secondo l’abusato adagio crociano, «ogni storia è storia contemporanea» e dunque l’interpretazione del passato è anche una posta in gioco delle lotte politiche del presente.

Piuttosto perché, con Koselleck e Hartog, siamo ancora nel regime di storicità instaurato dalle rotture europee del tardo Settecento: per cui la nostra percezione della storia contemporanea è frutto di una contrapposizione radicale fra passato e presente. Siamo dunque portati a pensare il mondo attraverso una serie di coppie concettuali, che un radicalizzano le distinzioni fra le società «tradizionali» di Antico regime e le nuove società «moderne». Anche quando parliamo di post-moderno o di fine della modernità siamo di fronte a un aggiornamento di quella logica.

Fa parte di queste rappresentazioni oppositive anche l’idea che la lunga transizione a formazioni sociali a dominante capitalistica abbia determinato una trasformazione qualitativa e irreversibile delle relazioni di lavoro. Dal pieno e assoluto dominio dei signori sui corpi al lavoro dei loro servi e sui loro prodotti si sarebbe passati a un mercato del lavoro «libero», ove la prestazione si scambia con un salario stabilito da un contratto. Certamente anche il contratto, come vide lucidamente lo stesso Max Weber, sancisce i rapporti di forza fra parti tutt’altro che «eguali», dato che gli uni sono proprietari che cercano di valorizzare il proprio capitale e gli altri nullatenenti che cercano un salario per non morire di fame. Tuttavia un contratto scritto è meglio del patto orale (o dell’assenza di patto) che caratterizza la dipendenza personale: perché postula l’equivalenza dello scambio, presuppone l’accordo fra i contraenti e pone qualche limite all’arbitrio e alla discrezionalità del comando.

Patti oscuri

Per chi non l’avesse già ripensato guardando alle periferie del capitale o agli imperi coloniali, le vicende degli ultimi decenni hanno dissipato come illusione ottica la pretesa irreversibilità non solo delle forme contrattuali più avanzate e delle garanzie conquistate dai lavoratori, ma anche la stessa idea di un passaggio storico epocale dalla coazione servile al libero contratto. Il lavoro salariato continua a diffondersi, ma l’idea «evolutiva» e il suo segno «progressivo» sono state ridimensionate. È dunque ora più agevole ricostruire storicamente le cangianti e plurali costellazioni delle relazioni di lavoro: per farsi un’idea basti scaricare le Outlines di storia del lavoro che Jan Lucassen ha compendiato in un saggio qualche mese fa (http://socialhistory.org/en/publications/outlines-history-labour). Fra lavoro «libero» (salariato-contrattuale) e lavoro «non libero» (servile-schiavile) non si dà alternativa secca, né nei singoli contesti, né storicamente, bensì cicli di prevalenza relativa e, soprattutto, intrecci e gradazioni intermedie. Allo stesso modo non è agevole distinguere le forme di coazione al lavoro e di potere sul lavoro o porle su una scala evolutiva: alle matrici economico-sociali si intrecciano costantemente elementi extra-economici, in particolare giuridici e istituzionali.

A questo cantiere di storia sociale delle pratiche lavorative si è affiancata, con la stessa diffidenza verso tipologie e schemi evolutivi e con la medesima attenzione alle insospettate continuità, una storia delle rappresentazioni del lavoro, che ha tracciato una genealogia critica dei paradigmi del lavoro ancora imperanti. Uno stimolante contributo in quest’ultima direzione viene dalla recente ricerca di Maria Luisa Pesante, una «storia intellettuale» delle «figure del lavoro salariato» nella cultura europea, la cui tesi è limpidamente sintetizzata dal titolo (Come servi, Milano, Angeli 2013) e dall’immagine di copertina: un disegno cinquecentesco che riproduce la scena dell’ingresso in miniera di alcuni operai, sorvegliati da arcigni personaggi muniti di robusti bastoni.

Antropologia al negativo

Il punto di partenza della ricerca è la diffusa convinzione che la teorizzazione del mercato del lavoro, e dunque del lavoro come merce il cui prezzo (il salario) è determinato dalle «leggi» della domanda e dell’offerta, risalga al sapere dell’«economia politica», giunto a maturità nel Settecento, come descrizione e interpretazione del nuovo modo capitalistico di produrre. Attraverso un serrato confronto con i testi, una raffinatissima filologia che non si esaurisce nell’esegesi interna, ma colloca i testi nel contesto intellettuale e sociale più largo, Pesante mostra come dietro la considerazione del lavoro come merce vi sia invece un’altra storia. Non è l’osservazione e formalizzazione teorica delle moderne relazioni capitalistiche di produzione ad ispirare l’analisi del lavoro in quanto merce, ma l’incorporazione nell’economia politica di teorizzazioni precedenti sui lavoratori.

La matrice dell’idea del lavoro-come-merce risale ai teorici seicenteschi del diritto naturale (Grozio, Pufendorf ed altri), che nel tentativo di inquadrare in termini contrattuali tutte le relazioni sociali leggevano il salariato come variante temporanea della servitù perpetua. L’uno e l’altra rappresentavano ai loro occhi sottomissioni volontarie al potere altrui, dovute all’indigenza. Seguendo le fonti del diritto romano, il salariato si doveva inquadrare nel contratto di «locazione», si pensava cioè come un affitto di lavoro. Però l’erogazione di lavoro è difficilmente scindibile dalla persona-al-lavoro e dunque il salariato restava in una posizione ambigua, fra equivalenza dello scambio (che apre, per altro, a nuove ambiguità: a cosa dev’essere equivalente il salario, al tempo di lavoro, alla quantità di prodotto o ad altro?) e ricaduta nella condizione servile (dominio sulla persona, senza limiti di compito, prodotto o tempo). A questa rappresentazione giuridica si affiancava un’antropologia negativa del lavoratore salariato, che ricalcava quella del servo e dello schiavo: incapace politicamente e civilmente, la sua soggettività si riduceva a una costante pulsione verso l’ozio e la frode.

Questa lettura del salariato aveva due corollari: primo, l’idea che i salari non possano crescere oltre un certo, ristretto limite dettato dalla sussistenza del lavoratore – e se crescono troppo è necessario l’intervento dello Stato ad abbassarli per legge, ripristinando l’ordine naturale; secondo, l’impensabilità di un conflitto «verticale» fra persone e gruppi dallo statuto diverso, se non nei termini patologici della violazione o rottura del contratto, che rappresenta un reato e come tale va represso.

Buona parte di questo bagaglio è alle origini dalla nuova «economia politica», che si vuole scientifica e oggettiva: è invece attraverso le lenti della giurisprudenza naturale e dunque del lavoratore come schiavo o servo che si teorizza il lavoro come merce fra le altre e quindi il mercato del lavoro. L’approccio di Pesante non è semplicistico: non si tratta di errori o di distorsioni ideologiche, quanto di vere e proprie aporie, di difficoltà reali. Gli interpreti passati in rassegna, dai giusnaturalisti ai filosofi politici, dagli economisti «pratici» ai teorici illuministi di un nuovo sapere, fino al caso emblematico di David Hume, faticano a leggere una realtà nuova e mutevole, perché si servono di vecchi strumenti e anche quando ne costruiscono di nuovi devono appoggiarsi, anche solo parzialmente, su presupposti precedenti. Nonostante i successivi tentativi di chiuderle dell’economia politica classica (Smith, Ricardo) e poi del neoclassicismo (da Jevons ai suoi eredi dell’ultimo quarantennio «neoliberista»), quelle aporie sono sopravvissute e sono tuttora vive. L’Autrice riconosce che queste aporie non impedirono all’epoca approcci alternativi e meno rigidi al salariato, come ad esempio quelli degli economisti francesi (ad es. Turgot), destinati tuttavia a rimanere minoritari nel farsi della nuova disciplina economica. Nemmeno in seguito sono mancate prese di posizione e teorizzazioni alternative, ma anch’esse sono rimaste subalterne: come la Dichiarazione di Filadelfia dell’Organizzazione internazionale del lavoro, che si apriva nel 1944 negando che il lavoro fosse una merce; come, negli stessi anni, la Grande trasformazione di Karl Polanyi, nella quale si sosteneva che la mercificazione di lavoro, moneta e terra era alle origini degli squilibri delle società capitalistiche; o, ancora, come l’economia delle convenzioni e la sociologia economica, che hanno criticato il riduzionismo mercantile e i suoi formalismi.

Invece Pesante non dà troppo credito alla declinazione marxiana della critica all’economia politica. È vero che Marx teorizzò il passaggio al lavoro «libero» nel capitalismo maturo, ma questo non significava una liberazione dei lavoratori, bensì un esproprio: l’«accumulazione originaria» è la storia del passaggio della proprietà dei mezzi di produzione dai contadini e dagli artigiani ai mercanti-imprenditori e della conseguente trasformazione dei produttori indipendenti in «proletari» che vivono di lavoro salariato. Inoltre se la forza-lavoro (non il «lavoro», né il lavoratore) viene acquistata come una merce, per Marx non era una merce come le altre.

In primo luogo, la capacità lavorativa viene comprata con un salario, che esprime il costo della sua riproduzione: ma non si tratta di un’equivalenza astratta, quanto di una rapporto di forza storicamente variabile, per cui quel costo può essere abbassato dalla pressione dell’offerta sovrabbondante delle braccia dell’«esercito industriale» dei disoccupati, ma può essere anche alzato dal conflitto organizzato, dal «movimento operaio». In seguito, una volta negoziato il prezzo, si passa dal mercato del lavoro ai luoghi della produzione, ove la forza-lavoro socializzata e cooperante rivela di essere una merce unica, per la sua peculiare capacità di aggiungere valore e dunque di produrre non solo merci, ma soprattutto profitto.

Il dominio simbolico

Oggi il dibattito su classe e lavoro è e non mancano visioni critiche su Marx anche in coloro che al suo arsenale teorico si ispirano (occorrerà tornare, ad esempio, su Beyond Marx, appena uscito per le cure di Marcel Van der Linden e Karl-Heinz Roth), ma la posizione dell’autore del Capitale resta imprescindibile e fertile. Altri, ad esempio, hanno esteso la valenza dell’«accumulazione primitiva» per espropriazione al di là del momento «originario», come processo che si ripropone continuamente (accanto ad Harvey sono da ricordare Mezzadra, Sacchetto e Tomba).

Ispirata dall’esperienza concreta delle relazioni capitalistiche, ma talvolta anche da Marx, la reazione soggettiva dei portatori della merce-lavoro ha inciso sulla società contemporanea ben più di quanto non abbiano potuto fare le pur ricorrenti e radicali rivolte di schiavi e di servi dei secoli precedenti. Sindacati e scioperi, partiti politici e rivoluzioni hanno segnato l’Otto e il Novecento e dimostrato praticamente che il lavoro non è solo una merce. Eppure oggi tanti continuano a pensarlo in quel modo e il dominio materiale del capitale è così raddoppiato in un dominio simbolico, che ci porta a interiorizzare la riduzione a merce, concorrenza e impresa di qualsiasi aspetto della vita sociale, dal sapere alle risorse, dalla formazione alla salute. Con il risultato, evidenziato con discrezione ma non senza amarezza anche dall’autrice di questo prezioso volume, che l’odierna precarizzazione ripropone lavori salariati contrattati al di sotto del livello di sussistenza.

uesti nuovi servi, come i loro predecessori pienamente disponibili e senza diritti né tutele, nuovi economisti e nuovi filosofi spiegano quotidianamente che quelle tristi condizioni si devono alla pigrizia: solo lavorando più a lungo e più intensamente (o, variante post-moderna, facendosi «imprenditori di se stessi») i lavoratori possono godere di qualche miglioramento. Non certo ricorrendo collettivamente al conflitto, che questi buoni eredi degli autori sei-settecenteschi studiati in Come servi esorcizzano come inutile o dannoso proprio perché, in fondo, fa saltare la mercificazione del lavoro e con essa le teorie che ne celebrano la naturalità.