Il governo Renzi investe sull’edilizia scolastica (3,7 miliardi), ma continua a tagliare gli stipendi dei docenti e del personale Ata che permettono le lezioni, mantengono aperte le aule, tengono in vita i laboratori e le altre attività. E in più non offre ancora una risposta agli esodati della scuola (i circa 4 mila «Quota 96»), malgrado una mozione parlamentare l’abbia impegnato a farlo. Per il sottosegretario Graziano Del Rio la spending review da 32 miliardi di euro «coinvolgerà anche la scuola e toglieremo le incrostazioni». Per la precisione queste incrostazioni corrispondono, al momento, agli stipendi di chi insegna. La ministra dell’Istruzione Stefania Giannini ha ammesso di non saperne niente. «Sarei stupita se ci fossero tagli alla scuola» ha detto l’esponente di Scelta Civica che solo un paio di settimane fa aveva addirittura promesso di «creare un problema politico al governo» se non avesse rifinanziato il fondo per scuola e università. «A me non è stato comunicato niente di specifico, quindi credo che la spending riguarderà l’alta dirigenza dello stato e quindi includerà anche il nostro ministero».

Il Documento di Economia e Finanza (Def) però parla di tutt’altra realtà. Insieme al taglio degli stipendi dei dirigenti strombazzato da Renzi c’è infatti il taglio degli stipendi dei docenti e ata ordinari. Nell’insieme la strategia economica del governo potrebbe essere così descritta: investire sul capitale fisso, e non su quello «umano». Con il risultato, se e quando arriveranno i soldi, che verranno create occasioni di lavoro grazie ai cantieri, mentre il personale impegnato dentro le aule verrà pagato sempre meno, sarà sempre più precario e non recupererà il potere d’acquisto mangiato dalle spending review dei governi Monti e Letta.

Scelte confermate anche nel Def che fa un resoconto della spesa nel pubblico impiego. Dal 2007 al 2012 è calata del 5,6%. Nel 2013 i tagli hanno comportato una riduzione degli stipendi e la riduzione del numero dei dipendenti nella P.A. Il settore che più ha contribuito alla causa dell’austerità programmata è stato appunto la scuola dove i contratti di lavoro non vengono rinnovati dal 2010. Il blocco è stato prolungato da Letta e Saccomanni fino al 2015, poi confermato da Renzi e Padoan. Sulla base di questa programmazione, i fondi per la scuola sono destinati a scendere dello 0,7%, verranno stabilizzati nel triennio successivo, per iniziare a crescere di un microscopico 0,3% a partire dal 2018. Considerata l’incertezza che regna sovrana sulla spesa pubblica, non è detto che queste previsioni verranno rispettate.

In realtà quello preventivato non è un “aumento” della spesa per il personale, bensì solo l’effetto dell’attribuzione dell’indennità di vacanza contrattuale per il triennio successivo 2018-2020. A oggi, questa indennità resta ancora bloccata e non verrà restituita. La scuola si conferma uno dei settori più colpiti del pubblico, insieme alla sanità. La spesa per il funzionamento ordinario di scuole, università o enti di ricerca è passata da 1,11 miliardi del 2011 a 0,95 del 2013. Nello stesso periodo per il ministero dell’Economia è quasi raddoppiata da 2,62 a 4,79 miliardi. Quello tra Giannini e Del Rio non è dunque solo un problema di comunicazione. È una decisione ponderata e nota da tempo. La prima non ne è al corrente. Il secondo, che porta i conti, invece sì.