Un titolo accattivante per un libro fortemente antiliberista, cioè quella forma specifica di un capitalismo interpretato alla luce non delle sue discontinuità, ma a partire dalle invarianti che presenta al fine di criticare il regime di sfruttamento immanente alla sua esistenza. È questo lo zoccolo duro del saggio di Carlo Formenti Utopie letali (Jaca Book, pp. 255, euro 18), che può essere considerato il punto di approdo di un percorso teorico iniziato con Cybersoviet (Raffaello Cortina) e poi proseguito con Felici e sfruttati (Einaudi). E se nelle due precedenti tappe l’oggetto polemico erano le ideologie della Rete, in questo libro Formenti si concentra solo sull’ideologia postmoderna. Crea un certo disorientamento trovare annoverati come liberisti inconsapevoli teorici e attivisti che indagano la centralità del marxiano general intellect, il ridimensionamento della sovranità nazionale di fronte il consolidarsi di una sovranità imperiale, l’emersione dei un lavoro autonomo di seconda generazione interpretata come crisi della «società salariale»; oppure che hanno messo la lavoro la categoria spinoziana della moltitudine per indicare una via d’uscita comunista dal politico definito nella modernità.

Le macchine universali

Il filo rosso che lega i tre libri viene indicato dallo stesso autore, in un sistema di rinvii che rendono Utopie letali sia una rassegna ragionata della pubblicistica dedicata al neoliberismo che un congedo dalle speranze, illusioni alimentate dalla diffusione della Rete come medium che poteva consentire l’accesso a rapporti sociali compiutamente postcapitalisti. Un aspetto, questo, condivisibile. Ma è nel ridimensionamento che l’autore compie sugli effetti tellurici che la diffusione di Internet ha avuto che va segnalato un primo dissenso rispetto la sua proposta teorica.

Le tecnologie digitali sono macchine «universali». Un microprocessore può infatti essere programmato per svolgere operazioni e mansioni differenti. Non è cioè come la macchina a vapore o un dispositivo elettromeccanico che consentono di sostituire determinati lavori compiuti da uomini e donne. Le tecnologie digitali puntano infatti a sostituire processi cognitivi, riducendo potenzialmente il cervello a mezzo di produzione, cioè a capitale fisso, per restare in un ancora indispensabile lessico marxiano. Cioè che conta nella tecnologie digitali è il software che le «governano» visto che è il risultato di un processo di formalizzazione matematica di funzioni proprie del cervello.

Intel, così come gli altri produttori di microprocessori o di fibre ottiche o di dispositivi digitali (tablet, computer portatili, smartphone), sono quindi imprese che svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo capitalistico. Solo così si spiega come nelle fabbriche che li producono vige un intensivo regime di sfruttamento, come ormai testimoniano le inchieste svolte negli sweetshop che punteggiano le cartografie della nuova divisione internazionale del lavoro. La Cina, la Malysia, la Thailandia, le Filippine, ma anche il Messico e perfino alcune regioni europee o statunitensi definiscono i mutevoli confini di una world factory sempre in divenire. È però la produzione di contenuti a dettare il ritmo dello sviluppo capitalistico.

Gadget umani

In un poco studiato saggio (Tu non sei un gadget, Mondadori) sullo sviluppo della Rete, uno dei primi ricercatori sulla realtà virtuale Jason Lanier si sofferma a lungo sulla tendenza dei produttori di contenuti a standardizzarli, riducendo l’articolazione, la complessità, la dimensione relazionale, e dunque sociale che sta dietro l’attività mentale. Questa tendenza a definire rigidi standard oltre che essere performativa su come si debbano usano le macchine, prefigurando così i social network, gli smartphone e i software usati per elaborare testi, immagini e suoni come tecnologie del controllo sociale, risponde anche a un altro vincolo dello sviluppo capitalistico: mettere a profitto la cooperazione sociale, espropriare i contenuti prodotti dagli esseri umani. Sta su questo crinale la centralità dell’immateriale nel capitalismo contemporaneo.

Ma sono altre le risposte che cerca l’autore: come si produce valore, plusvalore, profitti, in altri termini qual è il regime di sfruttamento?. Da qui la veemenza della critica di Formenti a chi nega la lotta di classe come motore dello sviluppo capitalistico.

In sintonia con quanto affermano studiosi come Luciano Gallino (La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza) o disincantati capitalisti come Warren Buffett, Formenti sostiene che la lotta di classe continua a plasmare le società capitaliste. Soltanto che a condurla non è la classe operaia, bensì le élite, meglio i padroni. Questa lotta di classe «dall’alto» è resa possibile non solo perché il movimento operaio è stata sconfitto, ma perché l’insieme delle forze politiche che dovevano rappresentarlo hanno rinunciato a condurla. Con un retrogusto tutto europeo, vengono elencati, passaggio dopo passaggio, la scelta di campo liberista di forze politiche come i laburisti inglesi, i socialdemocratici tedeschi, i socialisti francesi, spagnoli e gli eredi italiani del partito comunista e socialista. Anche su questo come non essere d’accordo con Formenti. Quel che non convince proprio è la liquidazione dei punti problematici costituiti da un regime di accumulazione che mette al lavoro proprio il marxiano general intellect.

Il libro di Formenti è inoltre scandito dall’analisi di alcuni teorici del capitalismo digitale – il capitalismo senza proprietà privata di Yocai Benkler, ma anche le suggestioni di Ulrich beck sulla società del rischio, nonché il monumentale affresco sull’era dell’informazione di Manuel Castells – e confrontate con i testi qualificati come «postoperaisti», sostenendone i punti di convergenza, al fine di accomunarli a un sostegno alla struttura di potere vigente. Ma non è certo l’accostamento polemico fatto da Formenti a costituire un problema. Semmai è la semplificazione che emerge dalle pagine a rappresentare un secondo punto di dissenso.

L’eclissi del politico

Carlo Formenti usa la categoria della moltitudine come una categoria sociologica utilizzata per descrive il lavoro vivo, omettendo il fatto che la moltitudine più che alla sociologia è inscrivibile al tentativo di superare le aporie del politico novecentesco, cioè quella riduzione ad unum che è prerogativa del concetto di popolo. Da questo punto di vista, la moltitudine più che fenomenologia del lavoro vivo è strumento analitico per qualificare e prospettare una forma istituzionale che rafforzi il potere costituente espresso dai movimenti sociali e dal lavoro vivo.

Va detto il concetto di moltitudine ha conosciuto una torsione sociologica compiuta anche da molti attivisti dei movimenti sociali, che hanno privilegiato una rappresentazione dele lavoro vivo come un insieme sì eterogeneo – per condizione lavorativa e rapporto contrattuale – ma irriducibile a qualsiasi dimensione politica. Ma così facendo viene meno la dimensione propositiva della moltitudine, che scandisce un assetto politico dove la dialettica tra potere costituente e potere costituito rimanga aperta, valorizzando così il conflitto proprio tra le classi.

Va inoltre detto che i «cantieri di ricerca» sul costituzionalismo, il dialogo a distanza con esponenti del pensiero liberale, la polemica verso le posizioni marxiste di Alain Badiou, l’interesse per le esperienze degli indignados o di Occupy Wall Street (considerati in questo libro come movimenti sociali compatibili con il neoliberismo) sono stati alimentati proprio per indicare un agire politico che assume l’eterogeneità del lavoro vivo come un limite da superare senza cadere nel vuoto pneumatico delle opzioni libertarie e anarchiche che negano qualsiasi possibilità di organizzazione politica. O, all’opposto, senza rincorrere nessuna mitologia di un proletariato sempre eguale a se stesso. Dunque, spregiudicatezza e disincanto, pensando che per trovare una salvezza dalla «società del capitale» occorre scendere negli inferi degli attuali atelier della produzione di merci. E di senso.

L’armonia made in China

Come contraltare a tutto ciò Formenti vede nella crescita della classe operaia nei paesi emergenti e individua nelle lotte operaie cinesi e dei lavoratori della logistica, della distribuzione e del commercio il punto di partenza per una ripresa del conflitto sociale e di classe. Traspare però nell’argomentazione di Formenti una sorta di rappresentazione statica dello sviluppo capitalistico.

Uno dei libri che viene molto citato è Cina. La società armoniosa, una raccolta si saggi sulla condizione operaia curato dalla studiosa Pun Ngai (Jaca Book). Ed è proprio in quel libro che emerge il fatto che anche nelle fabbriche cinesi, al pari di molte europee e statunitensi, la catena di montaggio convive con organizzazioni del lavoro compiutamente postayloriste. E che anche il passaggio alla classe per sé sia tutt’altro che scontato. Quel che emerge è che la world factory cinese assomiglia molto più a Melfi o alla Wolkswagen brasiliana. Inoltre, l’affermazione di una nuova divisione internazionale del lavoro mette in rilievo che anche nei paesi emergenti la preda ambita da parte del capitale è il sapere sans phrase espresso dalla cooperazione sociale al fine non solo di poter «governare» un processo lavorativo reticolare che ignora i confini nazionali, ma anche per attingere a processi innovativi sia del processo lavorativo che delle merci prodotte. Affermare quindi che la lotta di classe non è scomparsa non significa automaticamente uscire dalle difficoltà che il pensiero critico incontra. È solo un autorassicurante ottimismo della volontà.

Utopie letali è un libro ambizioso e come tale va letto. Ma non è detto che l’ambizione sia foriera di un buon risultato.