Suonava la marcia trionfale nel Palazzo e sui giornali, quando il parlamento italiano, nel tempo record di cinque mesi e con solo quattordici voti contrari raccolti in quattro votazioni consecutive di camera e senato (ruolino di marcia bulgaro: zero no, zero no, tre no, e alla fine undici no), cambiava la Costituzione per introdurre l’obbligo del pareggio di bilancio. Sono passati appena due anni. La novità non è ancora del tutto operativa, in attesa che i partiti si mettano d’accordo sulle nomine per l’organismo parlamentare di controllo. Eppure è già stata violata, alla prima occasione utile.

Meno male, potrebbero dire i pochissimi che si opposero a quella sciagurata contro riforma, (su queste pagine radunati). Ma attenzione: a decidere oggi lo sforamento sono gli stessi che allora si sbracciarono per il rigore costituzionalizzato. E non danno segni di pentimento, tant’è che insistono col proporre nel loro Documento di economia e finanza tutte le declinazioni dell’austerità. Promettono, anzi, di rimettersi presto in riga – «non stiamo affatto negando il contenuto dell’accordo», ha spiegato ai senatori il vice ministro Morando, e quell’accordo è il fiscal compact. Naturalmente con dosi massicce delle vecchie ricette: tagli alla spesa pubblica e privatizzazioni.

Volenterosi sostenitori della modifica dell’articolo 81 della Costituzione ieri, convinti sostenitori di Renzi e della sua necessità di deviare dalla marcia verso il pareggio oggi. I parlamentari del Partito democratico non ha neanche fatto lo sforzo di inventare nuove metafore. L’Italia è sempre «malata», ma nei discorsi di due anni fa la «medicina» era il rigore tedesco. Oggi è la «crescita», dunque la necessità di mettere tra parentesi il rigore per distribuire i famosi 80 euro con i quali pagheremo le minori detrazioni e le maggiori tasse.

La ricetta originaria, cioè la legge che ha cambiato l’articolo 81 della Costituzione, porta il marchio di fabbrica di un Berlusconi decadente. Fu però il dimenticato governo Monti a condurla all’approvazione, con il sostegno delle larghe intese e con centristi e democratici che chiedevano persino di più. Respinsero con sdegno la proposta di tener fuori dal calcolo le spese per investimenti: è quello che oggi chiede di poter fare Renzi. E tentarono di consegnare alla Corte costituzionale la possibilità di cancellare le leggi di bilancio non rispettose del vincolo: oggi Renzi sarebbe nei guai. Non solo lui, anche un bel po’ degli ex entusiasti Pd, oggi trasferiti al governo.

Nessun six pack o fiscal compact o altro totem dell’euro austerità obbligava l’Italia a mettere il pareggio di bilancio in Costituzione. Due anni fa abbiamo voluto strafare. E adesso arretrare. Ma non è il caso di farsi illusioni. Non vedremo Renzi né nessuno dei tanti deputati e senatori della maggioranza che ieri sono intervenuti in favore del deficit spending fare la fila ai banchetti dove si raccoglieranno le firme per quel referendum che cercherà di rimediare al loro errore. Diversamente la correzione all’articolo 81 potrebbero farla da soli, e anche presto, visto che si preparano a mettere mano alla Costituzione.

E invece no, la revisione costituzionale proposta dal governo e anche la legge elettorale, cosiddetta Italicum, devono servire a spianare la strada ai futuri esecutivi. Ai quali mancherà così il fastidio di un parlamento in grado di segnalare nuovi abbagli. Per questo le larghe intese non sono mai finite. Perché se perde i voti di Forza Italia, Renzi non ha più i numeri per fare le sue riforme. Ieri in senato, senza le truppe dell’ex Cavaliere, il governo si è ritrovato sotto la soglia di maggioranza proprio sul pompatissimo Documento di economia e finanza. Salvato dagli assenti.