«Diffidate di ciò che sembra semplice», amava dire ai suoi studenti Ezio Raimondi. Forse in questo senso acuto e inquieto della complessità, in questa capacità di trasformare la perplessità e persino il disagio di fronte al diverso e all’insolito in penetrante intelligenza interpretativa è consistito il segreto del suo magistero critico, senz’altro uno dei più rilevanti del Novecento. Per più versi, il percorso di Raimondi uomo e studioso ha caratteri di assoluta singolarità.

Nato nel 1924 a Lizzano in Belvedere da una famiglia di umili origini, iniziò a studiare il tedesco da autodidatta, venendo in contatto, tra i primi in Italia, con Essere e tempo di Martin Heidegger e con gli scritti di alcuni tra i più grandi interpreti della critica novecentesca: uno fra tutti Ernst Robert Curtius. La sua formazione maturò negli anni dell’egemonia culturale crociana, e la propria inesauribile curiosità lo spinse a infrangere le rassicuranti certezze di scuola per cercare interlocutori sempre nuovi. La sua tempra di «europeo di provincia» (per citare il titolo di un suo volume su Renato Serra) si oppose sempre a quel certo provincialismo della cultura italiana. La stessa instancabile energia propositiva animò la sua attività di promotore culturale della casa editrice «Il Mulino», il cui catalogo contribuì a far conoscere in Italia alcuni tra i titoli migliori della cultura europea. Dall’università di Bologna, intanto, Raimondi aveva mutuato due esemplari metodi di ricerca: l’intelligenza erudita di Carlo Calcaterra e la geniale sensibilità interpretativa di Roberto Longhi.

I primi importanti problemi sui quali Raimondi impegnò la propria attività di studioso riguardano i territori impervi dell’erudizione e della filologia; lo studio su Codro e l’Umanesimo a Bologna (1950) e l’edizione critica dei Dialoghi di Torquato Tasso (1958), tra le pagine dei quali dà prova di un metodo che non rimane confinato nel perimetro della pur complessa competenza disciplinare, ma si interroga sul senso complessivo dell’operazione interpretativa. La filologia per Raimondi è infatti una via alternativa a quelle che lui chiamava le «dialettiche totalizzanti» di marxismo e idealismo, proponendosi invece – sono parole sue – come «una storiografia del dialogo, che coglie l’individuo nella sua concretezza e unicità irriducibile» e si costituisce attraverso «un insieme di relazioni che non precede mai i fatti ma si dà nei fatti». Seguiranno poi i saggi sulla cultura barocca, sul Rinascimento, su Dante e Petrarca sul Settecento, su D’Annunzio, Renato Serra, Gadda e tanti altri.

Di uno degli autori a lui più affini, Alessandro Manzoni, diede una radicale reinterpretazione critica nel Romanzo senza idillio. Saggio sui Promessi sposi (1974). La continuata dedizione di Raimondi al capolavoro manzoniano si spiega forse con un’altra folgorante definizione che amava ripetere usando parole non di un critico letterario ma di un filosofo, Hilary Putnam: la letteratura «riproduce immaginativamente delle perplessità morali». Anche negli anni recenti della crisi dell’italianistica, incalzata dalle nuove tendenze d’Oltreoceano e dalla trasformazione profonda del sapere universitario, le indagini di Raimondi non hanno mai perso il loro movente profondo, e ciò in virtù del loro carattere interdisciplinare (come le tante ricerche compiute al confine tra letteratura e arte) e metacritico, capace, cioè, di confrontarsi con una pluralità di metodi e problemi lungo l’intero arco cronologico della moderna teoria dell’interpretazione.

Dai molti saggi che Raimondi ha dedicato alla teoria della letteratura, almeno due sono gli ambiti nei quali la sua riflessione ha raggiunto risultati decisivi: il concetto di intertestualità, ovvero il dialogo tra i testi, e l’analisi della lettura come «esecuzione» e atto interpretativo. In entrambi i casi emerge una concezione pluralistica della letteratura che appare, soprattutto oggi, come la più efficace conferma della sua centralità nelle società a venire. L’opera «diventa così il centro di (…) un sistema dialogico, dinamico e aperto, di voci che rimandano ad altre voci». Chi abbia provato l’esperienza entusiasmante di assistere alle lezioni di Ezio Raimondi, o anche soltanto a una sua conferenza, sa bene come questa definizione non rimanesse formula astratta ma si incarnasse in un’intensa, drammatica chiamata in appello di ognuno dei suoi ascoltatori. Perché la letteratura – come scrive in Un’etica del lettore (2007) – non lascia mai le cose come stanno, ma vuole «trasformare la memoria in esperimento, in costruzione dell’uomo». Se, come ha insegnato Raimondi, le parole hanno un volto e ci vengono incontro per interpellarci, sta a noi la responsabilità della scelta. La posta in gioco è la nostra stessa vita, perché – come scrisse Martin Buber – «ogni vita vera è incontro».