Figlio – e poi padre – di un pastore protestante, Friedrich Dürrenmatt (1921-1990) ebbe sempre, nel corso della sua intera esistenza di drammaturgo e narratore, un rapporto di attrazione e repulsione nei confronti della religione, che vedeva, al pari del suo rovescio laico, ovvero il dogmatismo ideologico, come una sovrastruttura censoria che impediva all’essere umano di pervenire a quell’inafferrabile – ma non impossibile – concetto che, in termini lato sensu filosofici, può riferirsi al termine «verità». Da questo punto di vista, la sua divergenza da Bertolt Brecht non avrebbe potuto essere più radicale: per Dürrenmatt, infatti, il vero nodo cruciale, il limite, dopotutto, dell’opera brechtiana, risiedeva nella tendenza dell’autore di Madre coraggio a installarsi in un sistema, a «teologizzarsi», il che lo portava a eludere il problema di ricercare, attraverso la scrittura, la verità, e a spostare, piuttosto, l’attenzione su quale verità valesse la pena esprimere (o, eticamente, dovesse esprimersi), cosicché – sta scritto ne Il complice. Testo e drammaturgia – «l’intelligenza di riconoscere la verità consiste nello scegliere, tra le varie verità, quella giusta».

All’opposto, Dürrenmatt inocula come un virus, nella teoria di Brecht, due reagenti – destino e caso – i quali, pur non estranei a una certa intenzionalità, soli consentono di pervenire a una forma superiore di giustizia sociale. Cosa, tuttavia, questa giustizia rappresenti è però un’incognita nell’equazione artistica. Ne La panne Una storia ancora possibile, racconto lungo pubblicato nel 1956 e oggi riproposto da Adelphi nella stessa versione einaudiana del 1972 (traduzione di Eugenio Bernardi, «Piccola Biblioteca», pp. 87, euro 10,00), posto che nella modernità «non vi è più un dio che minacci, né una giustizia, né un fato come nella quinta sinfonia; ci sono solo incidenti del traffico, dighe che crollano per errori di costruzione, l’esplosione di una fabbrica di bombe atomiche provocata da un assistente di laboratorio un po’ distratto, incubatrici mal condizionate», il destino (o caso) si manifesta nell’esistenza di un personaggio, il rappresentante di commercio Alfredo Traps, sotto forma di un imprevisto guasto al motore della sua Studbaker «fuoriserie rosso sangue»; allettato dalla prospettiva di un’inaspettata avventura («perché nei villaggi c’erano delle ragazze, come a Grossbiestringen, che sapevano apprezzare la compagnia dei viaggiatori in articoli tessili»), Traps finisce invece ospite per la notte in casa di un giudice in pensione: assieme al signor Zorn, un ex pubblico ministero, al signor Kummer, ex avvocato e al signor Pilet, oste ed ex boia, questi ha l’abitudine di passare le serate montane celebrando, tra le ricche portate di una cena d’altri tempi («quando gli uomini avevano ancora il coraggio di mangiare»), famosi processi della storia («il processo di Socrate, il processo di Gesù, il processo di Giovanna d’Arco»), ma la presenza di Traps e la sua disponibilità a recitare il ruolo di imputato consentono ai quattro eccentrici uomini di legge di mettere in piedi ex novo un giudizio il cui oggetto verrà fuori proprio dalla sua deposizione, perché, come gli suggerisce Kummer, «la via dalla colpa all’innocenza è sì difficile, ma non impossibile, mentre è un’impresa addirittura disperata voler conservare la propria innocenza ed il risultato non può che essere disastroso. Lei vuole perdere dove invece potrebbe averla vinta. Più tardi sarà costretto a non scegliersi una colpa, ma a lasciarsela attribuire». Deciso, infatti, a mantenere la linea prescelta, alla fine Traps finirà quasi col condannarsi da solo per aver indirettamente provocato la morte del suo principale Gygax, la cui prematura scomparsa gli aveva sgombrato la strada verso il successo professionale; dilaniato dal rimorso e vittima di una crudele sevizie psicologica, il viaggiatore di commercio sarà anche l’esecutore della propria pena, rovinando, col suo gesto, all’improvvisato tribunale, la «più bella serata» della loro vita.

Con estrema abilità nell’imbastire le trame di un congegno scenico in cui senza frizioni, ma inesorabilmente, si passa dalla farsa al dramma, ne La panne (come anche nel romanzo La promessa) Dürrenmatt apre un varco verso la verità che passa per un’idea di giustizia liberata dai lacciuoli del formalismo, «dalla inutile farragine delle formule, dei protocolli, delle scribacchiature, delle leggi»: un’idea che trascende il significato giuridico della colpa e la situa nella coscienza di ciascun uomo, dove solo il caso (ovvero il destino) la scova.

Come è ancora il caso a determinare il destino dei protagonisti di Un angelo a Babilonia (traduzione di Aloisio Rendi, marcos y marcos, pp. 184, euro 13,00), una commedia del 1953 che Dürrenmatt porta in scena nel dicembre dello stesso anno (alla Schauspielhaus di Zurigo), attingendo all’immaginario biblico del mito della Torre di Babele: in una Mesopotamia di fantasia, sotto la nebulosa di Andromeda, un angelo riceve l’incarico di consegnare la grazia divina, nelle fattezze della fanciulla Kurrubi, al più povero degli uomini, ma per un equivoco, la dà al re Nabucodonosor, il quale, credendo che il Cielo si stia facendo beffe di lui, la ripudia affidandola al mendicante Akki; attraverso una serie di colpi di scena, alla fine si compie la missione terrena di Kurrubi, ma non nel modo in cui avrebbe dovuto essere, sicché gli uomini, per mano del re, decreteranno da soli la propria fine impastando di empietà le mura della Torre in cui tutte le lingue conosciute si confonderanno portando il caos e la disperazione.

La stesura dell’Angelo (apparso in Italia, per la prima volta, nella collana teatrale di Einaudi), occupò Dürrenmatt per oltre cinque anni, modificando nel tempo le sue intenzioni rispetto alla rivisitazione dell’episodio biblico: «un teologo – ha annotato poi lo scrittore svizzero – che per sbaglio capitasse a teatro per assistere a questa commedia, potrebbe intravvedervi una teodicea», ma quello che Friedrich Dürrenmatt intende è piuttosto una digressione sul tema della pietà e del male: la presenza di Dio – di una divinità – si infrange impotente contro il libero arbitrio dell’uomo e contro l’irreversibilità delle circostanze e delle contingenze che sconfessano il valore predittivo di qualsiasi manifestazione terrena; che il fato di Kurrubi finalmente si compia non altera affatto il disordine che la sua comparsa, per molti versi inspiegabile, determina: la sovranità – e per essa l’autorità – è stata ormai messa in discussione e niente altro che la tirannia può condannare il popolo che insorge.

Al Dio perfetto e onnisciente di Leibniz (per cui il nostro sarebbe il migliore dei mondi possibili), Dürrenmatt oppone un Dio distratto «il quale dimentica le proprie creazioni»; un Dio incapace di comprendere ciò che, pur avendolo generato, non conosce; parimenti, gli uomini, frustrati dal loro non riuscire più a vedere la luce celeste dentro se stessi, si consegnano alla confusione linguistica compromettendo la speranza di una risolutiva redenzione. Lo scarto rispetto alla lezione brechtiana è evidente, così come è inalterato il fascino misterioso di un’opera disperata e disperante che oggi, se la si allestisse, potrebbe essere ancora accompagnata da questa chiosa firmata in terza persona dal suo autore: «Con questo testo F.D. si prende evidentemente gioco di qualcuno: o del Cielo o dei potenti o dei teologi o di noi tutti, o anche di se stesso. Di chi, non mi è ancora riuscito di capire».