Provenienti dal fantastico archivio della Triennale Design Museum e dai suoi «giacimenti» in rete, una moltitudine di oggetti ci racconta con il titolo Il design italiano oltre le crisi, cosa abbiamo prodotto tra le due guerre, e subito dopo fino agli anni del «benessere» e cosa produciamo oggi nel momento più alto di depressione della nostra società dai tempi della ricostruzione post-bellica. È per tutti un’occasione (fino al 22 febbraio 2015) che permette di rivedere mobili, oggetti d’arte e articoli d’uso domestico, in parte arcinoti, in altri casi misconosciuti, a volte di preziosa esecuzione e di acuta invenzione, in altre di modesto valore e significato, che hanno formato anch’essi l’identità della nostra manifattura, il cosiddetto italian style.

In condizioni di povertà di materie prime oppure in polemica con l’ideologia dominante del mercato, ideati nell’assenza di tecnologie appropriate oppure in alternativa ai processi industriali disponibili, il curatore Beppe Finessi, con Cristiana Miglio, ha voluto sviluppare un tema già in buona parte indagato che parte da un’affermazione: anche in tempi di crisi non viene meno la creatività, anzi nelle condizioni di autarchia e austerità c’è spazio per i progetti più innovativi, magari scoprendo altri modi di realizzarli attraverso, per esempio, l’autoproduzione.

Verso il lanital

Per meglio evidenziare questa tesi, la triplice a delle tre parole sopra citate è posta di sotto al titolo della mostra, disegnate secondo caratteri diversi da Italo Lupi che cura anche la grafica del progetto espositivo. Scopriremo, nel corso della visita, quante ambiguità quelle parole possiedono e come sia difficile al loro interno inquadrarne figure, eventi e progetti. Prendiamo ad esempio la prima sezione della mostra, quella che tratta dell’autarchia, che inizia con il Depero pubblicitario e grafico dell’industria e si chiude con gli arredi sperimentali in legno, metallo e vetro di Franco Albini e di Carlo Mollino. Il lungo elenco in catalogo (Corraini) dei 100 materiali autarchici oppure il racconto di Belpoliti su Il poema del vestito di latte che la Snia Viscosa nel 1937 commissiona a Filippo Tommaso Marinetti e Bruno Munari per propagandare il Lanital – un materiale tessile derivato dalla caseina – fa intendere la realtà di un paese chiuso dopo le sanzioni per l’aggressione all’Etiopia (1935).

È vero che lo stato corporativo emanò leggi e dettò indirizzi di politica economica per l’autosufficienza totale dai paesi stranieri, ma la più aggiornata storiografia ha dimostrato quanto ciò non sia stato possibile tanto meno desiderabile dal Fascismo. L’autarchia non è sinonimo di isolazionismo: è la fase nella quale procede la seconda modernizzazione dell’Italia dopo la prima degli inizi del ’900. In questo senso, l’autarchia non ha il significato di un’economia chiusa come la mostra fa intendere, ma quello di un nuovo modello di sviluppo, necessario dopo la crisi del 1929 e i nuovi assetti del capitalismo internazionale. Lo comprese bene Giuseppe Pagano: sulle pagine di Casabella-Costruzioni scrisse che se un industriale di scarpe avesse voluto fabbricare pantofole di paglia solo perché «nazionalmente tradizionali» occorreva «interdirlo dagli affari». È per questo che l’autarchia può diventare un «ulteriore motivo di lusso», come accade a Milano con il Palazzo uffici della Montecatini di Gio Ponti, mentre a Ivrea avanza l’innovazione con Adriano Olivetti che razionalizza la fabbrica per la produzione della macchina da scrivere M40. Prima di arrivare al secondo nucleo della mostra – gli anni settanta e la crisi petrolifera – è ineludibile il passaggio dal periodo della ricostruzione postbellica alla ripresa economica. La seduta Margherita (’51) di Albini e Colombini e la chaise-longue (’61) di Uberto Riva, prodotte da Bonacina, raccontano la stagione del Neoliberty e delle molte polemiche che seguirono dopo l’accusa di Reyner Banham di tradimento dell’architettura moderna rivolta all’opera che ne diede il via: La Bottega di Erasmo (1953) di Roberto Gabetti e Aimaro Isola a Torino.

Alla capitale sabauda la mostra dedica uno dei due approfondimenti geografici (l’altro è la Sardegna), riproponendo le scoperte di Enzo Biffi Gentili di un gruppo di artigiani ceramisti: da Camillo Lusso a Victor Cerrato, da Maria da Lobbi a Ottavio Galante. Il loro è un mondo di strane forme aerodinamiche che sembrano essere state espulse dall’industria automobilistica torinese come il prototipo della Bisiluro di Renato Vengoni. Quanto questi oggetti cerchino di «rappresentare il futuro», come Enzo Paci disse nel 1954 alla Triennale, in occasione del primo congresso internazionale dell’industrial design, è una questione aperta e del tutto trascurata se non fosse per la presenza in mostra di una stanza dedicata alla Danese e alla triade dei suoi designer: Bruno Munari, Enzo Mari, Angelo Mangiarotti. Nonostante la povertà dei mezzi economici a loro disposizione, l’azienda fondata nel 1957 da Bruno Danese e Franco Meneguzzo realizza piccoli oggetti esemplari per la razionalità del metodo produttivo che li contraddistingue: la forma più «ovvia» con il materiale e la tecnologia più coerenti. Nella stanza Danese si materializza il carattere teorico dell’industrial design: «creare uno standard formale la cui usufruibilità è praticamente illimitata», come affermò Argan e che abbia «una possibilità di irradiazione totale con la sfera sociale».

L’intera seconda sezione, Dall’austerità alla partecipazione, elenca le molteplici proposte, tra imprese utopiche, radicali e alternative nei confronti di un sistema di produzione che presenta tutti i suoi limiti con la crisi energetica del 1973. Crisi i cui segni premonitori sono antecedenti e che riguardano la frattura (visibile all’Expo di Osaka ’70) tra l’arte d’avanguardia e gli interessi tecnocratici della politica e dell’industria; soprattutto in Giappone e negli Stati Uniti, nazioni detentrici del primato industriale nel mondo. Le correnti di pensiero che agitano all’estero le coscienze e che rendono ogni designer critico della realtà esistente, non generano da noi alcuna rilevante trasformazione. A Milano, la città più esposta, l’«estroversione serviva a sprovincializzare molte cose – come scrisse Cesare Cases – tuttavia si esauriva nell’accettazione e nell’elaborazione di ideologie proprie di un capitalismo avanzato, ma privo di respiro nazionale». Dalle «proposte di autoprogettazione» di Enzo Mari alle «Metafore» plein air di Ettore Sottsass, dalle «architetture d’animazione» di Riccardo Dalisi agli «Interventi Urbani» di Ugo La Pietra, fino all’utopia «realizzata» di Arcosanti di Paolo Soleri per arrivare ai seminari-happening di Global Tools, ognuno di questi progetti denuncia il malessere diffuso della società opulenta: purtroppo non si andò oltre il loro atto di testimonianza o di sfida. Tra gli anni ’60 e ’70 ci si trova alla fine di un ciclo economico che ha mutato i caratteri del consumo di massa degli oggetti d’uso e le cose non si rappresentano più per la loro qualità funzionale, ma per la loro identità formale e simbolica. Alla crisi della modernità, alle «inquietudini del benessere» (Vitta), la sola «polarità» sulla quale si concentra la mostra è l’autoproduzione e l’autosufficienza: un esito, rispetto ad altri possibili, che possiede i più «malsicuri contorni». La terza sezione si compone così degli arredi neo-primitivi di Andrea Branzi insieme alla rivista Ollo di Mendini, dei vasi e delle lampade di plastica variopinta di Gaetano Pesce con le «piccole produzioni» di Michele De Lucchi: elementi mutanti della postmodernità che origina dal design del gruppo Alchimia e di Memphis.

La politica del repêchage

«Dopo i maestri», una nutrita schiera di giovani si è costituita rappresentando, come leggiamo in catalogo, i «prodromi della effervescente stagione odierna». Quanto i loro progetti autoprodotti possano segnare il nostro paesaggio urbano lo vedremo in futuro, ma è certo che le pratiche di chi li ha preceduti hanno inciso ben poco. Gli oggetti domestici e di arredo del Download Design o del Low Cost Design, collocati al termine del percorso espositivo in una sorta di cacofonico assemblaggio, in molti casi sono geniali invenzioni o in altri ironici repêchage che hanno espulso da sé il rigore della teoria e della serialità industriale.

Due aspetti quelli del sapere codificato e del produrre che nei mercati globalizzati non sono estinti, ma hanno assunto un ruolo centrale. Lo testimoniano le Icone del Design Italiano che, nell’ultima sala, raccontano l’eccellente creatività dei nostri maestri. Disposti dall’alto in basso in una struttura scenografica che è un enorme solido, lo sguardo corre su quegli oggetti originali e semplici che resistono allo scorrere delle mode. Senza doverle mitizzare insegnano che sono le «forme oneste», come disse Max Bill, e non i «prodotti dalla foggia instabile», le sole che vanno oltre le crisi.