Il 31 gennaio 2016 è morto a Roma Astrit Dakli. Ripubblichiamo uno dei suoi reportage dopo l’11 settembre 2001. Questo è stato pubblicato sul manifesto il 18 settembre.

La grande nuvola è ancora lì, al suo posto, sopra la punta sud di Manhattan, indifferente ai venti di guerra che agitano la politica, alle indagini sugli autori del massacro, alla sorte di Osama bin Laden. E’ piuttosto una lieve brezza di fine estate a spingere la nuvola verso sud, verso il mare: una brezza che ogni tanto cambia un po’ direzione e porta l’odore su altre parti della città, lontane anche parecchi chilometri.

Lo si sente a tratti tra gli alberi di Central Park, a nord, più spesso a Brooklyn, a sud-ovest. La nuvola è diventata quasi familiare, ormai: dopo sette giorni si è fatta più leggera e chiara ma c’è sempre, sembra far parte del nuovo skyline urbano al posto delle torri del World Trade Center, che l’hanno generata crollando in fiamme. E’ l’aereo segnale che ricorda a tutta la città quello che è successo.

Lì sotto, nel ground zero, il cratere lasciato dal Wtc, la nuvola nasce da una miscela di fumo (c’è ancora qualcosa che brucia, sotto le macerie: plastica, carta, legno, stoffa e carne umana), vapore (creato dall’acqua che continua ad essere gettata sopra le rovine ardenti) e polvere, sollevata dalle macchine che incessantemente scavano, setacciano e spostano l’immane cumulo di detriti: continuando a trovare non corpi interi ma frammenti degli oltre cinquemila esseri umani che a quanto pare (il conto è quasi definitivo: 5.143) sono stati inghiottiti dal crollo. Di loro, fino a ieri sera solo 190 erano stati identificati con sicurezza: gli altri sono ancora missing, dispersi; e chissà se mai i loro corpi verranno trovati e ricomposti, in quel crematorio che i terroristi hanno realizzato con tanta efficienza.

Lì sotto, a pochi metri di distanza dal cratere, la vita non è ripresa ma gli affari sì – anche se in modo prevedibilmente rovinoso, con perdite pesantissime (ne riferiamo a parte). Ieri mattina alle 9.30, fra suoni di fanfare diffusi dagli altoparlanti in un ambiente surreale, bandiere giganti e sotto gli occhi e gli obiettivi di pochi curiosi e centinaia di media-men, ha riaperto Wall Street, la borsa di New York, scelta ostinatamente come simbolo della vitalità e della volontà di ripresa degli Stati uniti. Solo che, nonostante gli appelli e i consigli di tutti – da Bush alle autorità finanziarie, fino agli “esperti” delle tv – investitori e speculatori hanno imboccato immediatamente la strada dell’orso, vendendo il vendibile e facendo precipitare gli indici.

Nei giorni scorsi, mentre migliaia di pompieri, poliziotti, professionisti e volontari d’ogni tipo continuavano freneticamente a lavorare alla ricerca di eventuali superstiti – l’ultimo è stato trovato mercoledì, poi più nulla – o più logicamente dei poveri resti dei missing, altre migliaia di tecnici hanno lavorato altrettanto freneticamente a ripristinare le condizioni minime perché il centro nevralgico della finanza americana (e mondiale) potesse ricominciare a funzionare.

Nella catastrofe sono andate distrutte due centrali elettriche e decine di migliaia di linee telefoniche: mille uomini della ConEd, la compagnia elettrica, hanno posato 35 chilometri di cavi, messo in funzione decine di enormi generatori diesel, ripristinato centrali di smistamento – tutto sotto gli sguardi inebetiti dei newyorchesi che domenica, quando alcune strade sono state riaperte ai pedoni, si sono spinti timidamente “downtown“.

Non erano molti, a dire il vero. A respirare con fatica, spesso con una mascherina o un fazzoletto sulla bocca nell’illusione di tenere a bada la polvere e l’acre odore della combustione, sotto un cielo altrove splendente ma qui reso giallastro dalla nuvola, erano soprattutto giornalisti, fotografi, cameramen, addetti ai lavori d’ogni tipo: nonostante la quasi completa riattivazione dei trasporti pubblici, metropolitana e autobus, di “gente normale”, chiamiamoli curiosi, se ne è presentata pochissima – per la maggior parte abitanti dell’adiacente Chinatown o latinos venuti a vedere in che stato si trovano le decine o forse centinaia di ristoranti, bar, fast food e negozi dedicati al popolo dei futures, dove fino a martedì 11 settembre erano impiegati come cuochi e camerieri.

Solo una piccola parte di quei locali ieri hanno riaperto, tra enormi difficoltà: in altri si poteva vedere qualche commesso o cameriere disperatamente al lavoro per ripulirli dalla polvere e dai quintali di cibo rovinato, mentre i più sono rimasti chiusi e vuoti.

Il futuro per loro non sembra roseo. Nonostante l’impegno frenetico del sindaco Rudolph Giuliani per rimettere in moto il più grande centro finanziario del mondo – e ridare ossigeno alla città tutta – è chiaro che i sopravvissuti dei quarantamila impiegati che lavoravano nelle Twin Towers e nel resto del World Trade Center non torneranno mai più a lavorare in questo posto, e lo stesso sarà per altre decine di migliaia che lavoravano negli edifici adiacenti.

Oltre cento, secondo una stima del municipio, sono i palazzi in un modo o nell’altro danneggiati e inagibili, e alcuni di essi sono grattacieli non molto più piccoli delle torri crollate. Le maggiori compagnie che avevano uffici lì non hanno perso tempo a leccarsi le ferite, per quanto tremende (due compagnie da sole, la Cantor Fitzgerald e la Marsh & McLennan hanno perduto circa mille impiegati e dirigenti) e si sono già organizzate per lavorare altrove; le piccole annaspano e cercano di far lavorare i propri impiegati a casa; e già tutti prevedono una fuga di massa verso collocazioni più disperse e sicure in altre parti di New York o nel New Jersey.

La nuvola su downtown Manhattan non spaventa solo le aziende. L’aereo su cui ho raggiunto New York, sabato, era uno dei primi dall’Europa dopo giorni di blocco, pieno di gente agitata e in qualche modo euforica per il rientro a casa. Applausi scroscianti quando il comandante ha annunciato, sorvolando il Massachussets, “Siamo sul territorio degli Stati uniti”; altri applausi eccitati poco dopo, quando al termine di una discesa tutta in linea retta il Boeing 767 ha toccato la pista: ma d’improvviso, quando rullando l’aereo ha girato e nei finestrini di sinistra è apparsa la sagoma di Manhattan coperta dalla nuvola gialla, trecento bocche si sono ammutolite di colpo. Il silenzio non è stato più rotto fino alla discesa dei passeggeri. Forse anche per questo, a riceverli, c’era un folto gruppo di ragazzi con bandiere e cartelli, “Bentornati, bentornati”, ma con il viso assai più triste delle loro scritte.

Il dolore – contenuto, discreto, straordinariamente civile e solidale – si vede soprattutto nel Greenwich Village, la zona che da martedì fino a domenica era rimasta a ridosso dell’area chiusa (molto larga rispetto al ground zero, per consentire il massimo della mobilità ai veicoli delle squadre di soccorso) e intorno agli ospedali.

Ovunque si trovano, attaccate ai muri, ai pali, alle auto, ai bulldozer in sosta, le foto dei dispersi. Per qualcuno sono stati aggiunti dei necrologi, dei disperati messaggi d’addio; sotto le foto di altri si legge una irriducibile speranza, sotto forma di descrizioni fisiche (alto tanto, pesa tanto, zoppica) o di appelli ai sopravvissuti (lavorava al tal piano della prima torre, se l’avete visto chiamate il numero…). Piccoli gruppi di persone – familiari, si intuisce – seri e tristi stazionano in permanenza dove queste foto si raggruppano più numerose, sperando che qualche passante, guardandole, riconosca un volto.

Il resto della grande metropoli sembra voler a tutti i costi fingere che le cose vadano come sempre.

Ieri, tutti al lavoro come ha chiesto Giuliani – la cui popolarità è salita alle stelle e che oggi in molti indicano avventurosamente come il candidato ideale per le presidenziali del 2004. Ma già domenica il Bronx era pieno di negozi aperti, gente a passeggio, musica forte dalle radio sulle auto dei ragazzi neri e ispanici e dall’interno dei locali, camioncini dei gelati in ogni strada, bar affollati.

E però gli affari migliori li facevano decine di banchetti improvvisati che vendevano bandiere americane, di tutte le misure: dalle bandierine piccole, con l’asticciola da infilare nel berretto, a quelle grandi, da finestra. A ogni banchetto c’era la coda. E le bandiere venivano usate, subito: in mano alla gente per strada, legate alle antenne delle autoradio, attaccate alle finestre delle case, uno spontaneo, generale tripudio di stelle e strisce che non so se questa grande città nella città, un tempo non lontano famigerata, abbia mai vissuto prima.

Del resto non è certo soltanto il Bronx a esporre con tanto orgoglio il vessillo. L’intera New York ne è piena, e credo anche il resto del paese.

Qualche amico che incontro si mostra preoccupato: in queste bandiere vedono un brutto segno, una voglia di nazionalismo e di rivincita. Mi raccontano di aver sentito in giro discorsi pesanti, battute da “nuke’em all“, facciamoli fuori tutti con l’atomica, che non promettono niente di buono in un paese governato da George W. Bush e da un gruppo di estremisti di destra come quello che circonda il presidente. Ma a dir la verità non sembra ancora che il clima sia questo.

Sì, i sondaggi dicono che la maggioranza – quasi la totalità – sarebbe d’accordo o addirittura desidera un’azione militare contro i terroristi e i loro protettori, anche a costo di perdere dei soldati: ma in fondo questo è logico e naturale, in una popolazione che ha appena subìto un attacco così tremendo; è una reazione emotiva e superficiale – e a ben guardare, nessuno si sta presentando ai centri di reclutamento per arruolarsi.

Sì, i tabloid e i giornali popolari sparano a caratteri di scatola titoli come “WAR“: ma la gente per strada non si affolla alle edicole, né il New York Times, che resta il giornale più importante della città e che ieri aveva l’intera ultima pagina trasformata in bandiera, da ritagliare e attaccare ai vetri, ha in queste ore una posizione aggressiva e guerrafondaia. Al contrario, trasuda da ogni articolo moderazione, prudenza e preoccupazione per le conseguenze che le scelte di oggi potrebbero avere per la libertà e la democrazia.

Piuttosto, esporre la bandiera oggi appare soprattutto un modo per sentirsi e mostrarsi vivi, per darsi coraggio e continuare la vita di prima. Che non è una cosa semplice, dopo uno shock di queste spaventose proporzioni.

A Brooklyn, domenica sera, nel Fort Green Park, ai piedi dell’obelisco che ricorda i soldati caduti nella guerra d’indipendenza americana del 1776, si teneva una delle numerose cerimonie multireligiose (ce ne sono state un po’ ovunque) in suffragio delle vittime. Una folla non grandissima (qualche centinaio di persone), seduta sul prato o in piedi, compunta, ha ascoltato per oltre un’ora i discorsi di due reverendi protestanti, un rabbino e un imam, intervallati da cori commossi di “We shall overcome” e simili, cantati con passione tenendosi per mano.

I discorsi, con parole più o meno simili, esortavano tutti a restare uniti, a non lasciar prevalere odii e rancori, a mantenere fermo il “melting pot” etnico e culturale. Peccato che il rabbino, un vecchietto con una lunga barba bianca, abbia sentito chissà perché il bisogno di presentarsi in divisa da marine della riserva, con tanto di elmetto, mimetica, anfibi e accessori da guerra.

Durante tutta la cerimonia, proprio sopra il parco, a bassa quota, passavano in continuazione aerei di linea diretti al vicino aeroporto LaGuardia, appena riaperto al traffico: stranamente, pochi alzavano la testa per guardarli.

–> Leggi anche il reportage di Astrit da Grozny nel 1999: Trappola nella città fantasma

 

12est1 new york 11 settembre USA-911
Commemorazione dell’attentato al WTC, 11 settembre 2014