La procura di Giza ha bloccato la diffusione dei documenti inerenti l’autopsia egiziana di Giulio Regeni. In altre parole, il team investigativo italiano al Cairo ha le mani legate e non può fare niente di concreto. Non ha i tabulati telefonici né gli atti dell’autopsia. Le parole del premier Matteo Renzi, sulla diffidenza che innescherebbe in Italia la mancata collaborazione egiziana, suonano come fuochi fatui alle orecchie del ministero dell’Interno egiziano che continua sistematicamente a depistare le indagini.

«Tra poche ore arriverà il capro espiatorio», sono le voci che ci arrivano dalla Fratellanza musulmana egiziana. Come a dire, tra poco verrà annunciata la testa che pagherà per l’assassinio senza ottenere la verità dei fatti.

Una delle risposte di questa che non è né una «spy story» né l’uccisione di un giovane «per le sue idee» è nelle parole del ministro dell’Interno Ghaffar: «lo tratteremo come un egiziano». E Giulio è stato trattato proprio come un egiziano in tutto e per tutto. Sono state sottovalutate le conseguenze della sua scomparsa da parte dell’ambasciata italiana che non ha avvertito i media come se Giulio fosse un desapericido egiziano qualsiasi.

Ma Giulio era uno straniero giovane e uno studioso impegnato: identikit perfetto da colpire. E poi Giulio Regeni stava per essere ucciso due volte: dall’incidente stradale alla spia, tutte le hanno provate per depistare.

Ora il New York Times cita testimoni non meglio definiti che si sono recati all’ambasciata italiana per dichiarazioni spontanee sul prelevamento di Giulio, sotto la sua casa, da parte di uomini in borghese.

E poi salta fuori l’alterco con la polizia dopo l’arresto a cui Giulio avrebbe reagito in modo brusco, il block notes con i nomi di uomini della Fratellanza e delle opposizioni. Come se tutte queste cose, come se lo stigma della spia, o addirittura dell’opposizione all’arresto, giustificasse la sua uccisione agli occhi dell’opinione pubblica egiziana. Ma a noi non basteranno mai queste illazioni.

E per i maniaci del complotto, la diffusione di queste voci a puro scopo di accreditare la vendetta della polizia contro al-Sisi neppure è una ricostruzione ragionevole, come ha spiegato puntualmente Wael Abbas in un’intervista al manifesto.

E poi si sono aggiunti tutti i vicini di casa che improvvisamente non vedono l’ora di parlare, di raccontare di pedinamenti ed intercettazioni. Da dove vengono, chi le alimenta queste voci? Giulio era uno straniero giovane che partecipava a riunioni sindacali. Per questo è stato torturato e ucciso e ora nessuno straniero potrà più recarsi come prima in Egitto.

Sono rientrati in Italia il suo amico e docente, Gennaro Gervasio, e Francesca Paci, giornalista de La Stampa. Noi siamo rimasti a raccontare la tragedia di Giulio dall’Italia. Al-Sisi per ora ha ottenuto il suo obiettivo. Ma in nome di Giulio, questo non succederà mai.