Nessuno, neanche nella squadra personale di Pablo Iglesias, si aspettava una vittoria così netta. Il rischio era che il congresso avesse un esito più sfumato. Se avesse vinto Errejon, Iglesias si sarebbe ritirato e si sarebbe aperto un difficilissimo interregno. Se invece la distanza tra i due settori fosse stata minore di quanto è stata il dibattito auto-distruttivo degli ultimi mesi sarebbe andato avanti all’infinito. La vittoria netta di Iglesias era l’unico esito che consentisse di ripartire con una linea d’azione precisa.

Si è così affermata l’idea di un partito in cui la presenza istituzionale non è un fine, ma uno strumento per rafforzare un tessuto sociale di opposizione a Rajoy e alle politiche liberiste, offrendo strumenti d’azione, visibilità e canali istituzionali all’iniziativa sociale. I parlamentari sono pensati come attivisti sociali. La presenza in Parlamento è concepita, oltre che come leva per l’accumulazione di forza sociale, come un mezzo di comunicazione che consenta di manifestare ogni giorno la propria irriducibilità alla politica tradizionale. La «frontiera populista» non è più posizionata, come nel Podemos del 2014-2016, nel discorso politico e nella comunicazione, ma è ridisegnata come frontiera sociale, quasi come rinnovato discorso di classe: le vittime della crisi, gli esclusi da diritti, opportunità e prospettive, contro l’intreccio politico-economico delle èlite. Podemos dev’essere il partito che dice la verità e costruisce un movimento popolare. Il «popolo» è questo stesso movimento, non un’entità che si definisce e si rappresenta solo simbolicamente. L’alleanza con Izquierda Unida e le forze regionaliste è pensata come un blocco storico.

Per chi ha inventato questo concetto (Gramsci) blocco storico significa unità di teoria e prassi, convergenza tra un orizzonte strategico e dei soggetti storici concreti.

Si tratta di una svolta ideologica rispetto al Podemos del triennio precedente? Solo in parte. L’idea che la frattura basso/alto sia più importante di quella sinistra/destra non viene sconfessata.

C’è però la convinzione che il partito pensato nel 2014 avesse raggiunto i propri limiti espansivi. Non tutto si può ottenere con l’innovazione linguistica, l’abilità comunicativa e l’efficacia istituzionale. Una nuova espansione può passare solo dall’innesto, su questo tessuto, di elementi del partito di massa: estensione territoriale, legami con la società, capillarità organizzativa. È un aggiunta, non una sostituzione.

Nel congresso non si sono confrontate (solo) due opzioni ideologiche. Lo scontro tra Iglesias ed Errejon è stato più prosaico. Per due motivi. Il primo è che al centro del conflitto c’è stato o un elemento tattico. La distinzione in moderati (Errejon) e radicali (Iglesias) non spiega il dibattito, incentrato sull’impostazione più efficace per espandere il proprio elettorato e vincere le elezioni del 2020. Il secondo motivo è ancora più prosaico, e importante. Nella primavera del 2016, il settore di Iglesias si rende conto che Errejon ha costruito un partito del partito. Controlla quasi tutte le strutture interne. Soprattutto, si scopre che i suoi hanno costituito su Telegram un gruppo chiamato Mate Pastor («matto del barbiere», strategia scacchistica che porta in poche mosse allo scacco matto).

Gli errejonisti pianificavano di ottenere la guida del partito nelle federazioni regionali più grandi per poter poi vincere il congresso. Iglesias non doveva essere sostituito, ma indebolito e controllato. Da quel momento il conflitto è esploso. Il risultato del congresso ha chiuso questa spirale, ma apre un’altra partita.
Errejon è colui che più di ogni altro aveva pensato, con Iglesias, cifra ideologica, struttura organizzativa e campagne elettorali del partito. È questo il vero cambiamento che emerge dal congresso, già visibile nelle prime giornate post-congressuali.

C’è già un altro Podemos. Errejon è ora una minoranza, che sarà probabilmente esclusa dagli incarichi principali. Ma è una minoranza forte (un terzo del partito) e molto organizzata. Osservando i comportamenti tenuti fin qui, non è da escludere che stia già pensando a una rivincita, dentro o fuori dal partito. Il congresso consegna quindi un Podemos più forte, perché più forte è il suo segretario generale e più chiara la linea politica. Ma anche una debolezza: la difficoltà di gestire il passaggio alla minoranza di una componente che era stata fin qui centrale.

Tutto questo è spoetizzante, rispetto a ciò che Podemos rappresenta? No. C’è una linea d’interpretazione dell’evoluzione di Podemos che la riconduce alla perdita di una (mai esistita) purezza movimentistica, ispirata alla cultura degli Indignados. Ma Podemos è un partito, e per certi versi un iper-partito, da quando è nato. I problemi che affronta ora sono quelli eterni della costruzione di una forza politica rilevante: l’omogeneità territoriale; la continuità temporale; il rapporto tra l’univocità del proprio messaggio e la propria complessità interna; la relazione tra costruzione egemonica e rappresentanza di settori sociali specifici. Affrontare questi nodi non è un tradimento, e non è per forza contraddittoria con l’invenzione di modelli d’azione innovativi e partecipativi.

Affrontarli significa superare l’eccezionalismo di una fase politica specifica e irripetibile, quella in cui un attore politico «alieno» atterra nello spazio politico e lo cambia, e provare a stabilizzarsi. Nessuna innovazione potrà rimuovere questi caratteri permanenti dell’azione politica: “conservare e superare”, diceva Hegel, sono due momenti dello stesso processo.